Nell’era digitale, la consapevolezza sulle ingiustizie sociali e ambientali che si verificano in varie parti del mondo è diventata sempre più diffusa: internet e in particolare i social media hanno contribuito a democratizzare l’accesso all’informazione. Piattaforme come Instagram, Twitter, Facebook, TikTok permettono a cittadini e utenti di ogni angolo del mondo di impegnarsi in una causa sociale − femminismo, ambientalismo, razzismo, abilismo, identità di genere, ecc. − dando vita a quello che può essere definito come attivismo digitale, ovvero azioni collettive che avvengono attraverso i dispositivi digitali e i social network.

L’attivismo digitale, quando l'attivismo si sovrappone alle regole dei social

TikTok, secondo i dati di un articolo del Corriere della Sera, tra il 2020 e il 2021 in Italia non solo è cresciuto del 388% conquistando oltre 8 milioni di utenti, ma ha rivoluzionato in tempi brevissimi le potenzialità del mezzo, facilitando un cambiamento nella comunicazione del cosiddetto “nuovo attivismo”, spesso associato agli adolescenti della Generazione Z ( tra i 15 e i 24 anni). 

Gli utenti, attraverso video, dirette e soprattutto challenge sono continuamente stimolati a partecipare al dibattito pubblico condividendo a loro volta contenuti che spaziano dalla lotta al razzismo e alla crisi climatica, alla parità di genere e all’uso del linguaggio inclusivo.

All’interno di una più ampia ecologia mediatica, i social media permettono di amplificare i messaggi politici, aumentando la consapevolezza individuale e collettiva su una determinata causa. Queste piattaforme non vengono utilizzate semplicemente per comunicare una causa, ma si rivelano strumenti utili per diffondere azioni sia online che offline – come, ad esempio, il movimento Black Lives Matter e il movimento #MeToo. Dall’altro lato però, nonostante le lodevoli premesse, l’attivismo da social presenta delle problematiche strutturali. Nel mondo di Internet e dei social network la linea di demarcazione che separa l’attivismo online dall’attivismo performativo è molto sottile.

Ma nel concreto, che cos’è l’attivismo performativo?

Con il termine attivismo performativo si fa riferimento a un coinvolgimento attivo riguardo un movimento o un’ideologia, con la particolarità di farlo esclusivamente per i propri interessi personali. 

In altre parole, si sostiene un movimento per avere un ritorno personale da questo tipo di azione, spesso senza appoggiare pienamente la causa. Nell’attivismo performativo la posizione politica dell’individuo risulta essere sempre più snaturata dal suo scopo ideologico. L’attivismo, che per antonomasia è un qualcosa di collettivo, sui social sembra destinato a diventare sempre più appannaggio dei singoli, svuotando di significato le istanze che lo descrivono. Ogni lotta è declinata sul sé, le istanze politiche vengono svuotate e depotenziate, viene meno la loro dimensione collettiva.

Con l’ingresso dei social all’interno delle pratiche di attivismo e di militanza politica si è giunti a quello che si può definire il “mercato del sé”, dove nessuno è più in grado di essere il portavoce di presupposti ideologici che trascendono dalla narrativa personale.

Social washing e attivismo performativo: le due facce della stessa medaglia

A questo proposito, all’attivismo performativo viene spesso associata anche la pratica di social washing. Il termine fa riferimento al tentativo delle grandi aziende e dei grandi brand  di apparire più “etiche” agli occhi del loro pubblico di riferimento, fornendo un’immagine di sé migliore rispetto a quello che in realtà rappresentano. Il social washing  può quindi essere definito come un’attività che ha lo scopo di migliorare la reputazione dei brand attraverso la promozione di iniziative sociali e benefiche che si dimostrano essere di facciata o, nel peggiore dei casi, soltanto un ritorno economico.

Quello del social washing non è un fenomeno nuovo. Fin dalla nascita del mondo pubblicitario si è sempre cercato di dare un’immagine più edulcorata e positiva del proprio brand.

Un esempio fra tutti è Nestlé che già negli anni 90 realizza campagne pubblicitarie e informative a favore della somministrazione del latte in polvere ai bambini dei paesi in via di sviluppo. Queste campagne oltre a essere state criticate per aver violato il Codice internazionale sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno, risultano essere in contrapposizione con l’immagine reale dell’azienda, ormai nota ai più per le sue politiche di sfruttamento ambientale e umano.

Tra i casi più recenti di questa pratica ci sono la campagna per promuovere l’uguaglianza di genere lanciata da Audi durante il Super Bowl del 2017 e lo spot pubblicitario di Pepsi con protagonista la modella Kendall Jenner, entrambi ritirati a seguito delle accuse di superficialità e incongruenza. 

Il social washing può avere anche un’altra accezione, che in questo caso non riguarda l’immagine “sociale” del brand bensì quella “social”, ovvero la presenza sui social network per comunicare maggior apertura, coinvolgimento e interesse alle tematiche sociali e di attualità solamente per fini commerciali o di immagine.

Influencer che diventano attivisti: il caso Ferragnez

Un esempio di commistione tra social washing e attivismo performativo è il caso Ferragnez.

Nell’ultimo periodo la coppia formata dall’influencer Chiara Ferragni e il rapper Fedez, ha scelto di intraprendere una strategia di comunicazione social ben precisa, improntata a sfruttare il sempre più crescente interesse, soprattutto nelle fasce più giovani, verso tematiche sensibili e di stampo sociale

Il profilo dell’infuencer è sempre più permeato da messaggi solidali, aspirazionali e talvolta politici, in particolare di stampo femminista e di empowerment femminile, tematiche che si sposano perfettamente con la promozione dell’immagine di donna imprenditrice che ha saputo costruire da sola il proprio impero economico.

La principale componente critica all’operato dei Ferragnez sui social risiede nel fatto che ogni campagna, post e contenuto a favore di qualche battaglia sociale è contornato dalla dicitura #ADV o Partnership, a indicare come dietro ogni azione risiede un compenso economico da parte di qualche grande azienda, offrendo in questo modo la possibilità di brandizzare qualsiasi causa sociale trasformandola in business.

Su La Stampa Serena Mazzini, social media manager e editorialista per Domani, sostiene che i messaggi e le istanze che la coppia di influencer porta avanti vengono completamente svuotati di senso e della loro complessità politica fino a che non diventano condivisibili da tutti, risultando di conseguenza di facile appropriazione da parte di brand e aziende orientate al profitto.

È con la pandemia che molti creator si sono reinventati come attivisti. Hanno fatto emergere diverse tematiche – trattate sempre in modo superficiale – relegando istanze tendenzialmente collettive a un mero orpello identitario, grazie alla natura egoriferita e individualistica di questa piattaforma. […] Cosa succede quando si fa attivismo online senza radicamento con altre realtà, in maniera accentratrice o individualista? Che si perde la complessità di alcune battaglie, le aziende investono in campagne politico-sociali e le influencer le sostengono per avere un ritorno di immagine

Superficialità, individualismo e profitto

Quello sui social rischia sempre più di diventare un attivismo superficiale, che non si integra con una reale lotta politica, che perde totalmente il suo obiettivo primario e lascia spazio al profitto e alla mercificazione del sé

Giulio Calella, in un articolo di Jacobin, lo definisce come «un attivismo che interrompe la spoliticizzazione della società ma che non si traduce in forme capaci di costruire la dimensione collettiva e duratura della battaglia politica. Anche i movimenti più chiaramente posizionati a sinistra, come quello contro la crisi climatica o la nuova ondata femminista, tra una grande manifestazione e l’altra producono poche esperienze di radicamento sociale, pochi luoghi collettivi di discussione e di conseguenza poco vocabolario comune».

Sono gli stessi attivisti che finiscono “risucchiati” in queste dinamiche diventando sempre più simili a degli influencer: adeguarsi e sottostare alla natura del mezzo digitale dove le regole sono dettate dall’algoritmo, dai like, dai numeri e dalle sponsorizzazioni. 


Giada Selmi