Questo articolo è stato scritto da Davide Chiarini. Dottore in Web Marketing e imprenditore nel digitale dal 2014. SEO, digital marketer e copywriter con un background nel branding e nello sviluppo front-end di siti web.

Da sempre sono affascinato dalla tecnologia e mi piace sfruttarla per trovare soluzioni creative. Amo collaborare con le persone per scoprire nuove prospettive e per innovare insieme in ogni ambito, anche in cucina, ma non provate a fare una carbonara coi Bitcoin.

Come riesce un solo cantante a riempire stadi di calcio interi? Migliaia e migliaia di persone sono lì per ascoltare le sue canzoni, hanno investito soldi, tempo e ore in fila per cercare di occupare il posto più vicino al palco. Com’è possibile tutto ciò?
La risposta è la relazione.
Nonostante canti a migliaia di persone, è come se stesse parlando a te, ti emoziona, lo conosci “di persona” attraverso i social e l’hai amato dalle sue canzoni. Come un cantante, anche un brand deve cercare la propria fan base e creare una rete di relazioni tra sé e gli altri, ma soprattutto tra i clienti stessi. Come raggiungere questa meta?

Avere una brand identity forte e riconoscibile

Il grande obiettivo per una strategia di successo, quello che ogni brand cerca di raggiungere, è il posizionamento nella mente delle persone. Significa essere associati immediatamente a delle funzioni, caratteristiche ed emozioni ben precise, significa avere una posizione di vantaggio nel processo di scelta ed acquisto.
Soprattutto in un mercato così competitivo, questo è un obiettivo estremamente complicato sia da raggiungere che da mantenere nel tempo.

Per impostare una strategia così a lungo tempo e che porti a dei risultati rilevanti serve:

  • avere il coraggio di rischiare puntando a caratteristiche di brand specifiche che suscitino emozioni coinvolgenti nei consumatori;
  • essere persistenti e consistenti nel posizionamento;
  • avere chiaro in mente il proprio target per raggiungere un coinvolgimento più elevato.

Al contrario, Byron Sharp, nel suo libro How Brands Grow, mette in discussione l’idea che i consumatori abbiano bisogno o vogliano una relazione con un marchio, evidenziando invece il concetto di disponibilità di un brand.
In sintesi, egli sostiene che esistano due elementi per far crescere un marchio: uno spazio nella mente del consumatore puntando ad una comunicazione più larga possibile e uno spazio sullo scaffale del negozio più vicino, quindi in termini di presenza fisica.
Una tesi che però non risulta efficace nell’era dei dispositivi connessi, del commercio online, dei social media e della complessità di un mondo costantemente interconnesso.


L’elemento chiave: la customer centricity

Per anni la quasi totalità delle aziende si è concentrata sul prodotto e sulla sua distribuzione, perdendo di vista il fulcro di ogni attività, il cliente. Oggi, le persone hanno più potere nei confronti delle imprese grazie alla capacità di scelta e opinione data dal digitale.
Avere il prodotto meglio visibile nel negozio più vicino non basta più, i consumatori acquistano sempre più on the go grazie al mobile e-commerce che negli USA ha raggiunto il 45% della spesa totale online nel 2020.

Non è neanche più scontato che una volta acquistato un prodotto si arrivi alla customer retention, il passaparola positivo. Ecco perché oggi dobbiamo concentrarci sulla customer centricity, ovvero mettere il cliente al centro delle attività di marketing e considerarlo come il primo influencer del brand.
È un approccio aziendale votato ad allineare le fasi di progettazione, sviluppo e distribuzione dei prodotti e servizi coi bisogni attuali e le esigenze future delle persone, al fine di instaurare un rapporto di fiducia che rimanga solido nel tempo.

Il passo per attuare questo concetto è considerare i propri clienti come persone e non consumatori. Se ci soffermiamo alla classica segmentazione demografica o geografica non andremo mai a fondo negli insight e non comprenderemo che ogni cliente è diverso dall’altro, anche se apparentemente non sembra.
Le persone sono complesse, il loro comportamento si rifà ad una miriade di cause diverse, e per comprenderne meglio le azioni abbiamo bisogno del supporto dei dati.

Però, il marketing guidato dall’analisi è stato spesso accusato di disumanizzare il cliente ed è dimostrato che i data scientist e gli analisti possono cadere nella trappola di vedere le persone come righe nel flusso dei dati.
Serve invece capire a chi ci rivolgiamo guardando agli insight, ai comportamenti, ai bisogni e alle loro paure per guardare al consumatore come un essere umano. In questo senso, un bravo marketer deve comportarsi anche come uno psicoanalista per capire i clienti ed entrare in empatia con loro.
Significa comprenderli in senso olistico, a 360°, perché le persone comprano per motivi emozionali, ma tendono a giustificare gli acquisti in modo razionale. In analisi, si traduce nell’unione di dati quantitativi e qualitativi.

Il primato del digitale

Il nuovo contesto digitale influenza il modo in cui ci relazioniamo nella società. Un fenomeno che ha determinato un’evoluzione dei bisogni e necessita di essere approfondito.
Nella prima fase di Internet le aziende erano solite sfruttare i siti per inserire le brochure e i cataloghi dei prodotti. I clienti potevano guardare le offerte direttamente da casa, ma le informazioni erano ancora difficili da trovare. Con l’arrivo di Google le persone possono confrontare prodotti e trovare tutte le informazioni di cui hanno bisogno.
Il secondo passaggio è costituito dai social media che permettono di trovare dettagli ancora più specifici su un bene e, soprattutto, danno agli utenti la possibilità di condividere le loro esperienze di utilizzo senza alcuna influenza dei brand.

Secondo i dati di Forrester, il 60% delle persone preferisce non interagire con un venditore come principale fonte di informazioni; il 68% effettua le ricerche da solo e online; mentre il 62% afferma di poter completare l’acquisto di un bene basandosi esclusivamente sui contenuti digitali.

Nella situazione attuale, i bisogni dei clienti non possono più essere categorizzati nella classica piramide di Maslow ideata negli anni ‘50. Una soluzione, evoluzione della precedente, è la teoria della piramide COSMA. Essa si suddivide in cinque livelli:

  • connessione: il bisogno di essere collegati;
  • orientamento: il bisogno di sicurezza nell’era dell’informazione e della comunicazione è garantito dalle tecnologie;
  • socialità: garantito dagli strumenti informatici in grado di collegarci col mondo intero;
  • medialità: il bisogno edonistico di essere visibili e partecipare attivamente;
  • autocelebrazione, l’appagamento e la realizzazione derivante dall’uso delle nuove tecnologie.

Conseguenza della trasformazione dei bisogni è quello dei comportamenti.
Oggi, i consumatori sono meno fedeli alle marche, più imprevedibili e più prudenti negli acquisti.
A livello di marketing, questo significa un customer journey molto più ampio e frammentato in cui il cliente ha molto più potere.
Egli può compiere molte azioni che se tracciate singolarmente non assumono alcun valore, ma se ordinate in sequenza disegnano un quadro del processo d’acquisto molto utile in ottica data-driven. Inoltre, proprio perché l’elaborazione dei dati non riguarda solo gli ambiti online, i marketer possono analizzare il percorso dei clienti anche offline, ad esempio guardando alle interazioni col call center.

Zero Moment of Truth

In un mondo ideale, il customer journey verso la fedeltà di marca sarebbe una linea dritta: vedo il prodotto, lo acquisto, lo uso e ripeto il ciclo. In realtà, il percorso è molto più articolato, suddiviso in tante occasioni, touchpoint, in cui le persone entrano in contatto con l’azienda e scelgono se interessarsi o guardare altrove.

Comprendiamo, quindi, come il comportamento dei clienti sia frammentato in tanti micro-momenti, punti di contatto che compongono il viaggio del cliente. Essi sono stati teorizzati con la definizione dello ZMOT (Zero Moment of Truth) da parte di Google che definiva il momento della verità, ovvero l’istante in cui un utente veniva intercettato.

Lo ZMOT è così importante perché rappresenta l’istante in cui allo stimolo segue la vera decisione che porta la persona a voler comprare un certo bene. I micro-momenti sono quegli attimi di interazione, per loro natura brevi e ripetuti, che moltiplicano la quantità di ZMOT nel customer journey.web. 

L’importanza dei funnel

Per ordinare questo viaggio frammentato del cliente, vengono a supporto i cosiddetti funnel, modelli di marketing che ordinano i micro-momenti. Eppure, anche se ben strutturati, spesso non riescono a catturare in modo ottimale la complessità del marketing digitale e dei clienti moderni.
Il contesto ci mostra come le vecchie tipologie di funnel non sono più utili e non riescono a rappresentare la realtà. Servono framework più dinamici per disegnare un quadro più pertinente.

Due su tutti il See Think Do Care di Kaushik e le cinque A di Kotler (aware, appeal, ask, act e advocate).
Entrambi hanno un fattore relazionale in comune che li eleva da un concetto verticale di funnel, ad una visione circolare e dinamica: è la cura del cliente.

Curando il customer journey nella fase di Care o supportando le relazioni nel momento di advocate, non solo si consoliderà la customer base aziendale, ma si instaurerà un circolo virtuoso nelle persone che ritorneranno ad acquistare il prodotto/servizio e genereranno pubblicità gratuita col passaparola portando nuovi clienti. Il requisito necessario diventa la relazione personale, rivolta al singolo individuo e non ad un intero segmento di pubblico, come specificato dal precedente CEO di IBM, Ginni Rometty «The shift is to go from the segment to the individual. It spells the death of the average customer».

Si può essere tentati di pensare alla segmentazione come a un artefatto storico, ma le nuove forme di analisi coi big data danno una nuova prospettiva a questo strumento, permettendoci molta più flessibilità e comprensione del funzionamento dei mercati. È quello che viene chiamato il terzo potere dei big data, la capacità di zoomare su piccoli segmenti per ottenere informazioni molto specifiche.

Trovare la propria audience attraverso la predicting personality

In un mercato con tali possibilità, le persone chiedono di più dai beni che acquistano e, con una concorrenza così aggressiva, le imprese che non sono in grado di soddisfare queste aspettative vengono rapidamente lasciate indietro.
In un grande gruppo di clienti ci sono diversi tipi di persone, ognuna con caratteristiche che la definiscono.
L’utilizzo della segmentazione basata sull’analisi delle informazioni ricavate dai big data consente di raggruppare questi individui in base a caratteristiche simili. Questo permette alle imprese di progettare e fornire prodotti rilevanti per la propria audience di riferimento. Maggiore è la pertinenza, maggiore sarà il ritorno sull’investimento e la redditività.

Un metodo per arrivare ad un tale obiettivo è la ricerca dei doppelgänger (detta anche predicting personality) che si concentra sul piccolo sottoinsieme di persone più simili a un dato individuo e sfrutta i collegamenti tra gli insight riguardo le caratteristiche comportamentali, sociali e psicologiche.

Si tratta del marketing predittivo, un’area del marketing che punta ad estrarre dai dati gli schemi comportamentali più ricorrenti e, come tutti gli approfondimenti sui segmenti, migliora con l’aumentare dei dati. Una tecnica sfruttata da molte aziende per migliorare le loro offerte e le esperienze degli utenti. Amazon vede quello che sceglie la gente simile a noi e su questo basa le sue raccomandazioni, Spotify fa lo stesso con le canzoni consigliate e Netflix capisce quale film potrebbe piacerci.


Delineare le buyer persona

Una volta raccolti i dati riguardo le caratteristiche dei clienti, si delineano le buyer persona, personaggi fittizi creati per rappresentare i diversi tipi di utenti. Esse vengono usate per immaginare degli scenari e comprendere meglio l’audience di riferimento.
Creare le persona è utile per rappresentare i potenziali destinatari della comunicazione e ottimizzare le strategie di marketing. Una tecnica valida, ma che riscontra alcune problematiche se mal applicata.

In primis, spesso capita che la costruzione delle persona sia basata su stereotipi e assunzioni prive di dati.
Ad esempio, solo perché qualcuno è fondatore di una start-up non è detto che sia un ventiquattr’enne millennial. Una conseguenza di questo approccio è che la maggior parte dei profili creati si concentra su ruoli e titoli senza andare in profondità e cogliere le sfumature.

Inoltre, gli identikit creati tendono ad essere statici, invece di essere in continua evoluzione coi bisogni delle persone. Serve una maggiore specificità che può essere garantita solo con l’ausilio dei big data. Insieme al supporto dell’intelligenza artificiale, i dati possono essere elaborati in tempi ridotti per essere poi utilizzati nella creazione di persona più profonde, dettagliate e flessibili.
Una corretta costruzione del profilo dei clienti è frutto del mix di tecnologia, processo e cultura aziendale, tre elementi che portano ad un concetto oggi decisivo: la personalizzazione.

Quando si sente parlare di personalizzazione, si pensa immediatamente alle e-mail pubblicitarie che iniziano col proprio nome, ma questa è solo una piccola parte che non influisce molto, anzi, se usata male può anche avere effetti negativi sulla percezione dei clienti. L’argomento riguarda invece la soddisfazione dei bisogni dell’audience col giusto contenuto, al momento giusto e alla giusta persona.

Il costante aumento della varietà di prodotti disponibili è un indicatore dello sviluppo dei bisogni dei clienti che ora chiedono beni su misura. Marisa Edmund, responsabile del reparto di marketing internazionale presso Edmund Optics, disse: «If I have a thousand customers coming to my website every day, it’s possible that each and every individual would see a different home page based on what they bought previously or what they liked or what they searched for on Google prior to coming to the site».

Quando si riesce a far sentire ad un utente che la pagina che sta visualizzando è veramente sua, che le offerte disponibili sono relative ai prodotti che preferisce e che le informazioni che legge lo interessano veramente, attraverso il digitale e ai dati siamo riusciti ad instaurare una relazione più personale.
La personalizzazione funziona proprio perché migliora il rapporto dando attenzione ai clienti invece di chiederla.
I database e i dati raccolti fungono da supporto alle aziende per ricordare le preferenze e usarle per mantenere vivo il legame, per migliorare il dialogo ed entrare in empatia.

Il problema dell’uncanny valley

In ogni caso, come definito dai docenti dell’università di Bolzano Coletti e Aichner, ci troviamo nell’epoca della personalizzazione di massa: la personalizzazione non è più un lusso per pochi, ma può essere garantita ad un ampio pubblico grazie ai big data.
I brand devono comunque tenere a mente il problema emergente dell’uncanny valley per cui le persone rigettano gli approcci di marketing troppo personalizzati.
Il termine fu utilizzato per la prima volta dall’esperto di robotica Masahiro Mori il quale notò che così come si tende ad essere più favorevoli verso i robot con alcune caratteristiche umane, altrettanto si è a disagio quando diventano troppo realistici.

I ricercatori Strong, Champiss e Koutmeridou cercarono di analizzare il parallelismo tra il fenomeno dell’uncanny valley e il processo di personalizzazione del marketing.
Notarono che i consumatori inizialmente apprezzavano la comunicazione personalizzata e il loro legame col brand cresceva di conseguenza. Invece, superato un certo limite, l’invasività diventava eccessiva, le persone non si sentivano più a loro agio e l’empatia che si era creata svaniva rapidamente.
È quindi compito dei marketer chiedersi dov’è situato questo limite per la propria azienda ed evitare così che tutta la strategia possa trasformarsi in un fallimento.


La teoria del Fan Centric Business

La personalizzazione però non deve essere l’obiettivo finale, ma un mezzo per arrivare ad una relazione coi clienti più autentica, fedele e di valore, e che porti i consumatori ad essere dei fan.
È la teoria del fan centric business, un modello di marketing strategico che analizza e interpreta il comportamento dell’audience, ponendosi l’obiettivo di trasformare i fan in consumatori e i consumatori in fan. Internet porta con sé la promessa di un coinvolgimento delle persone estremamente facile.

I social network come Facebook e i servizi di distribuzione di contenuti come YouTube sono gratuiti, semplici da usare e raggiungono ogni essere umano del pianeta con una connessione.
Agli inizi, entrare in un social era come partecipare ad un’uscita tra amici virtuale. Era un modo divertente per rimanere in contatto con le persone pubblicando, commentando e condividendo contenuti o pensieri. Oggi, però, gli algoritmi implementati hanno favorito una fruizione di questi portali votata al guadagno degli azionisti, piuttosto che all’interazione tra utenti.
Il risultato è un ambiente digitale freddo in cui molte persone cancellano i propri profili social o li rendono privati.

In un mondo online dove le vite sono sempre più disordinate e superficiali, si è alla ricerca di connessioni umane genuine e autentiche.
Le persone, quindi, saranno maggiormente interessate ad investire il loro tempo in ciò che crea maggiore intimità, empatia e valore.
Qui si sviluppa la teoria del fan centric business ideata da David Meerman Scott e da sua figlia Reiko. Essi sostengono che il mondo dei fan non è più una variabile sociologica riguardante solo alcuni ambiti come per lo sport o i cantanti, ma una fan base può diventare significativa per qualsiasi azienda.
L’atto di unire in modo consapevole un pubblico prende il nome di fanocracy, un’organizzazione di persone/fan che promuove connessioni significative tra loro e mette al primo posto l’essere umano prima del prodotto.

L’ingrediente fondamentale per la riuscita di questo modello di marketing è il ruolo dell’azienda che deve essere schietta, utile e trasparente, come in una vera connessione umana, e proprio come tra persone deve saper emozionare, far gridare di gioia e coinvolgere le persone con i suoi comportamenti coerenti, prima ancora che con i prodotti.
È lì che si instaurerà una relazione vera e duratura che, proprio come un cantante famoso, ci farà andare al suo prossimo “concerto” e acquistare i suoi futuri album.