“E anche quando fu accolto negli Inferi, mai smise di contemplarsi nelle acque dello Stige”
Ovidio, Metamorfosi

A chi non è mai capitato di riempire i momenti vuoti della giornata passando un po’ di tempo sui social? Magari mentre ci aspettavamo di ricevere una mail di lavoro, un messaggio su Whatsapp o un like all’ultimo selfie postato.

La chiave è proprio nell’aspettativa che si ha nel ricevere un riscontro alle proprie azioni, l’attesa che qualcosa irrompa nello scorrere del giorno e sospenda momentaneamente la noia della quotidianità. Il bisogno di essere stupiti ci porta ad immergerci nel flusso continuo delle vite altrui, in un vortice di immagini, video e pensieri personali che qualcuno ha deciso di condividere con noi; un attimo dopo torniamo alla realtà senza neanche essere consapevoli della nostra breve assenza da ciò che ci circonda.


I nostri occhi, bramosi di forme di intrattenimento sempre nuove, ci portano a dissociarci dal mondo esterno e a rifugiarci nel
la sfera del digitale, dove il tempo scorre ad un ritmo diverso da quello reale. Un ritmo sincopato, fatto di contenuti a cui si dedicano pochi istanti, appena sufficienti per capire di cosa si tratta, formulare una risposta e passare al prossimo, in attesa che dalla nostra reazione scaturisca una risposta dell’autore del contenuto stesso. Ciò è da imputare al modo in cui è stata progettata la tecnologia: grazie all’infinite scroll siamo sempre di fronte a nuovi stimoli, che non ci danno né il tempo né il motivo di staccarci dallo smartphone.

Secondo uno studio condotto da Microsoft, a causa di questo rapporto con la tecnologia la soglia di attenzione delle persone oggi si attesta attorno agli 8 secondi, addirittura inferiore a quella di un pesciolino rosso. Cerchiamo di compensare la scarsa qualità della nostra esperienza della Rete con la quantità: in media, tenendo in considerazione che nel mondo ci sono 3,96 miliardi di navigatori del Web (circa il 51% della popolazione globale), le persone trascorrono sui social network circa due ore e mezza al giorno. Durante l’arco della giornata, l’utente medio fruisce dei dispositivi mobili per connettersi 150 volte, e vi interagisce toccando, digitando e scorrendo 2.617 volte.

Tutti per un like, un like per tutti

Se è vero che in amore e su internet vince chi fugge, siamo condannati a vivere in una perenne condizione di insoddisfazione, dove – come direbbe Schopenhauer nel ventunesimo secolo – la giornata è solo un pendolo che oscilla incessantemente tra un post di Instagram e un post di Facebook. La monotonia può essere spazzata via solo da un segno (like, tweet o messaggio) dell’altro.

Mentre scorriamo in modo distratto sui social, veniamo esposti a centinaia di frammenti di vite altrui. Questi assaggi di esperienze vissute da chi ci sta virtualmente intorno spesso hanno una forte impronta positiva, infatti ciò che ci viene mostrato è un tripudio incessante di benessere e felicità – o. per meglio dire, di ciò che ci appare come felice. Un tramonto mozzafiato, un piatto prelibato o un tenero animale domestico suscitano determinate reazioni nella platea virtuale, che manifesta la propria approvazione del contenuto postato tramite il famoso e prezioso “pollice in su”. Chi è in grado di mostrare i lati migliori della propria vita riesce ad ottenere molte reazioni positive, simbolo di validazione dall’audience, e a veder aumentare la propria autostima. Noi, che siamo gli spettatori (e a volte attori) di questa interazione silenziosa, ci misuriamo inconsapevolmente con gli altri, scivolando in una competizione tra chi ha più followers, più lauree e più figli.


Tristi per scelta (altrui)

Confrontarci con gli utenti più popolari delle piattaforme è una trappola di cui cadiamo vittime a vari livelli. Nonostante l’apparente innocuità di questa abitudine, calibrare il proprio valore su cosa fa chi ci circonda ha delle conseguenze innegabili a livello emotivo. Secondo Geert Lovink, i social sono creati e fondati proprio sulla tristezza viscerale che gli utenti provano nel frequentarli. Questa emozione deriva dal gap tra immagine di sé (come si pensa di essere), status sociale percepito (come gli altri pensano che io sia) ed eterna presenza di se stessi in forma virtuale.

A fare da padrone è l’algoritmo delle piattaforme, che sfrutta le informazioni che diamo di noi per elaborare su misura dei modi personalizzati di farci sentire male. In questo scenario, trova spiegazione la grande importanza che si dà all’interazione con gli altri: nei rari momenti di consapevolezza della nostra posizione di utente tra gli utenti, né speciali né insostituibili, la tristezza si insinua in noi, fino a caratterizzare il nostro tempo trascorso in rete. Stanchi di navigare, ci aspettiamo di ricevere da un momento all’altro una notifica, in grado di distrarci dalla nostra condizione. Il trillo ci scuote dall’intorpidimento, e ci offre un magro premio di consolazione ad una gara a cui non abbiamo scelto di partecipare. L’obiettivo di questa dinamica è proprio quello di produrre una soddisfazione frustrante, che ci spinga a distrarci dalla noiosa realtà per essere tormentati dalla noiosa virtualità.

Dimmi quanti selfie posti e ti dirò chi sei

Trovare un’ancora di salvezza è complesso, perché la propria identità è subordinata al giudizio dell’altro. Il modo per riaffermare la propria presenza e il controllo su se stessi c’è, e no, non è cancellarsi da tutti i social e vivere da eremita lontano dalla civiltà, quindi vi conviene annullare il biglietto di sola andata per l’Alaska. La soluzione è molto più semplice, perché l’avete già nella vostra mano: si tratta del famoso quanto praticato selfie.

In media, ogni giorno ne vengono scattati 93 milioni, oltre mille al secondo. Di questi, pochissimi riescono a vedere la luce sui social, perché nulla è mai frutto della spontaneità che si vuole ostentare. Inoltre, il selfie è raramente autentico in senso stretto, poiché con il tempo nell’immaginario visivo delle culture di Internet si sono sedimentati una serie di gesti ed espressioni ripetitive. Tra i più noti del manuale non scritto dell’autoscatto per antonomasia ricordiamo la duck face, l’inquadratura dall’alto e il filtro “miracolo divino”.

Il selfie non ritrae altro che l’immagine che si vuole comunicare di se stessi, in cui difficilmente ci si allontana dal “format” a cui aderisce la massa virtuale.


Ma dove risiede l’innegabile appeal del selfie?

Certamente non solo nella vanità di chi lo scatta, al contrario di cosa ne pensano i detrattori. In realtà, esso costituisce l’unica traccia che di sé si lascia nell’immenso flusso della Rete. Se la mia immagine esiste, allora anche io esisto; se qualcuno mi sta guardando e mi sta dedicando attenzione mi sento vivo, riconosciuto e apprezzato.

L’autoscatto è uno strumento per enfatizzare l’Io digitale in un mondo dove trionfa la velocità e la sistematica distrazione da ciò che ci circonda. Si tratta di una netta presa di posizione rispetto a chi siamo e come vogliamo mostrarci agli altri tramite cui è possibile mitigare la vulnerabilità che sentiamo di fronte alla platea online.

Privacy, questa sconosciuta

Giovanni Stanghellini, docente dell’Università di Chieti, nel libro “Selfie – Sentirsi nello sguardo dell’altro sintetizza il concetto rielaborando la classica formula cartesiana in “videor, ergo sum“, “sono visto, dunque sono”. Nell’accezione identificata da Cartesio, la capacità umana di pensare è un dato incontrovertibile su cui fondare la propria esistenza. Con i meccanismi dei social, è lo sguardo estraneo a conferire all’Io in cerca di visibilità pieno valore. Nella maggioranza dei casi, l’approvazione espressa dal “mi piace” non è indicativa di un reale apprezzamento da parte degli utenti, ma essere guardati è più che sufficiente per eliminare la paura di essere completamente dimenticati.

Vivere nel terrore di non essere degnati di uno sguardo dai propri follower può talvolta condurre all’ossessione della documentazione delle proprie esperienze. D’altra parte chi non ha un amico o un’amica che ci tiene costantemente aggiornati sullo svolgimento della sua giornata tramite post e storie Instagram?

L’oggetto del selfie è spesso una testimonianza di un’esperienza vissuta che vale la pena di condividere. In questo senso, viene rivelata alla platea digitale la propria intimità, o, per meglio dire, estimità. In un’intervista rilasciata a “La Stampa”, il grande sociologo Zygmunt Bauman sintetizza con queste parole il rapporto che abbiamo con la platea di amici sconosciuti che popola i social:

Siamo fatti così, ci serve la società per essere felici. Vogliamo essere individui speciali, diversi, con sogni unici. Ma quando abbiamo lavorato così duramente per creare la nostra identità dobbiamo andare in piazza e vederla confermata”.


Verso una
vetrinizzazione sociale

Nella crasi tra le parole “intimità” ed “esterno” si cela ciò che Vanni Codeluppi identifica come fenomeno di “vetrinizzazione sociale“. Le persone si espongono nella loro versione migliore (patinata e costruita) come se fossero a tutti gli effetti delle merci in vetrina. Alcuni risultano così capaci di spettacolarizzare la dimensione più privata dalla propria vita da essere considerabili a tutti gli effetti dei divi, fonte di ispirazione per la massa e modelli di determinati stili di vita.

L’ammirazione verso figure seducenti e irraggiungibili non è certamente un fenomeno che nasce con i social, ma con essi arriva ad assumere sfumature del tutto nuove, molto più democratiche e alla portata dei comuni mortali. Grazie ad Internet hanno trovato concretezza le profetiche parole di Andy Warhol, secondo cui “nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti”, perché non è necessario mostrare talento e originalità per trovare qualcuno disposto ad ascoltare ciò che hai da dire; è sufficiente mettere in vetrina la propria intimità ed aspettare che qualcuno ci degni di uno sguardo per accontentarci ed essere divi a modo nostro.

Homo homini influencer

Da questo punto di vista, tutti possono aspirare ad essere delle celebrità. Tutti sono divi, eppure alcuni sono più divi degli altri. Si tratta degli idoli degli utenti per eccellenza, ovvero gli influencer, personalità che su Internet hanno trovato una visibilità tale da poter influenzare qualcuno. Gli influencer sono imprenditori a tutti gli effetti, in grado di rendere merci le proprie opinioni (e in alcuni casi la propria vita più intima) al fine di trarne profitto commerciale. Secondo le statistiche più recenti, si stima che soltanto in Italia il mercato dell’Influencer Marketing valga 241 milioni di euro. In questo momento, i dati indicano una crescita esponenziale che non accenna ad esaurirsi.


Specchio specchio, servo delle mie brame, chi é il più narcisista del reame?

L’attitudine esibizionista insita negli esseri umani e potenziata attraverso la Rete è a tutti gli effetti sintomo di personalità narcisista. D’altra parte, il mito di Narciso si focalizza proprio sulla sua condanna: specchiandosi, scopre se stesso e la sua immagine così come viene visto dagli altri, fino a diventarne dipendente e a trovare, in ultimo, la morte.


Il riconoscimento del nostro valore, o soltanto della nostra esistenza, genera un senso di gratificazione che pone le sue radici nella biochimica dei comportamenti umani.
Mentre trascorriamo il tempo sui social media siamo spinti a compiere determinate azioni, come postare contenuti o commentare post, aspettandoci di ricevere una risposta al nostro operato. Secondo la teoria del Dopamine-driven feedback loop, i like, i commenti e le condivisioni che riceviamo vengono interpretati dal cervello umano come una ricompensa, che stimola la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore noto anche come sostanza chimica del piacere.

Finché c’è il selfie c’è speranza

In conclusione, ogni manifestazione della nostra presenza digitale, il cui massimo esempio è il selfie, serve ad illuderci di non essere soltanto un componente del sistema, destinato a scomparire nel flusso di vite altrui e tormentato nell’attesa di un riconoscimento che potrebbe non arrivare mai. Ogni post è utile a rimettere al centro il proprio Io, in tutta la sua gamma di emozioni, ricordi ed esperienze memorabili che vale la pena di condividere. Naturalmente occorre sempre scegliere con attenzione la superficie dove ci si sta specchiando, perché quella dello smartphone nasconde acque profonde, da cui si rischia di venire inghiottiti. Narciso docet.