Learnability vs usability: cosa abbiamo capito su anziani e coronavirus

Il coronavirus ha spostato tutti gli aspetti della nostra vita dal mondo reale a quello virtuale. L’aumento delle connessioni da casa (secondo gli ultimi dati forniti da Fastweb all’Agcom, i momenti di picco si sono innalzati del 40%), la tipologia di app che ora sono più scaricate sugli store mobile, lo spostamento anche dei meeting degli A.A. su Zoom e la recente “rivoluzione” della ricetta medica tramite SMS ne sono un chiaro segnale.

In questa situazione c’è da chiedersi: la tecnologia è pronta per essere usata da tutti gli utenti?

La risposta è no. Nonostante i molteplici studi fatti, sono ancora costretto a dover andare da Milano a Piacenza per aiutare mia zia che, non per colpa sua, non riesce ad usare la intranet aziendale (di cui non posso fare nomi, ma è una delle intranet più usate in Italia) perché chi l’ha progettata pretendeva che utenti dell’età media di 60 anni capissero, ad esempio, che potevano trovare i propri cedolini sotto la voce di menù “myspace” (contrapposta a “mywork”). Con il coronavirus, ho dovuto farle installare TeamViewer tramite una videochat su whatsapp, per poter continuare ad assisterla senza problemi.

Ma torniamo all’argomento principale: come facciamo a progettare un’interfaccia che non richieda l’assistenza costante di un’altra persona?

Per rispondere a questa domanda, ho deciso di fare un po’ di ricerche.

Cosa genera maggiore difficoltà?

Uno studio recentemente pubblicato da alcuni ricercatori delle università australiane di Queensland, Canberra e della Sunshine Coast ("The effects of redundancy in user-interface design on older users” Reddy, Blackler, Popovic, Thompson & Mahar, 2019) ha cercato di capire se le interfacce “ridondanti” (ovvero, che comprendessero sia icone che testo) fossero più facili da navigare da parte degli anziani rispetto a quelle con solo testo o con solo icone. La risposta è stata molto interessante: le interfacce ridondanti e quelle con solo icone risultano più difficili da elaborare per gli utenti più anziani, rispetto alle interfacce in cui è presente solo testo.

Perché le icone non funzionano con gli anziani?

Secondo gli studi, il nostro cervello sviluppa prima la capacità di elaborare le immagini rispetto a quella di elaborare la parola. Tuttavia, lo sviluppo di questa capacità si arresta prima e decade più rapidamente, rispetto all’elaborazione del testo. Ciò significa che gli utenti più anziani compiono un maggiore sforzo cognitivo per elaborare una immagine e associarla al suo significato e azione.

Pensiamo al tasto “start” di Windows 10. 

Al di là della sua posizione (in basso a sinistra, rispettando l’amatissima e abusatissima legge di Fitts), questa icona di menu principale risulta poco comprensibile per un anziano: i quattro rettangoli, infatti, stanno a significare una finestra, con diretto riferimento all'inglese "Windows", da cui poter accedere a tutti i programmi. Chi non conosce l’inglese e non è avvezzo ad una metafora simile (una repository con tutti i tool) può avere più difficoltà a fare questo tipo di associazione. Inaspettatamente, lo studio ha anche dimostrato come la curva di apprendimento (autonomo) di una interfaccia ridondante fosse più alta rispetto a quella di una interfaccia solo testo. Il fattore ancora più interessante è stato che sulle interfacce che presentavano solo testo, le persone più anziane hanno avuto la medesima abilità delle persone più giovani, riuscendo a compiere le task senza chiedere un aiuto, benché ci abbiano messo leggermente più tempo per farlo (i giovani hanno performato meglio in assoluto nelle interfacce ridondanti).

La soluzione è eliminare tutte le immagini e icone?

Non proprio. Nonostante l’alto sforzo iniziale, le immagini hanno la caratteristica di rimanere più a lungo nella memoria a lungo termine a differenza delle informazioni testuali. Attraverso la ripetizione delle azioni, una volta imparato il significato di un’icona, una persona anziana avrà molta più facilità a ricordare cosa quell’icona faccia, anche senza il supporto testuale. Inoltre, icone e immagini aiutano a rendere più facilmente scansionabile una interfaccia, evidenziando le zone più importanti: una interfaccia solamente testuale, per quanto ben gerarchizzata, rischia di aumentare il carico cognitivo dell'utente per la quantità di informazioni mostrate.

Non progettate interfacce intuitive

Torniamo alla domanda iniziale: la tecnologia è pronta per essere usata da tutti gli utenti? No.

Analizziamo Skype, Zoom o altri tool che oggi vengono usati per la situazione Coronavirus. 

Molte delle funzionalità, anche di base, possono risultare complesse ai neofiti della tecnologia e agli anziani. Fino a quando si tratta, ad esempio, di chiudere una chiamata, la maggior parte degli utenti riesce a capire qual è il bottone necessario, spesso evidenziato di rosso (anche se l’assenza di label rende il bottone meno comprensibile ad alcuni). Nel momento in cui è necessario fare una operazione un po’ più complessa, come condividere lo schermo, molti si trovano in difficoltà. Skype usa un'icona poco chiara, Google Meet usa un linguaggio sia visivo che testuale, difficile da capire immediatamente (“Present now”), anche da utenti un po’ più esperti.

È vero, se è l’unico strumento per ottenere un risultato, le persone si impegnano per capire come funziona un software o un’app. Tuttavia, la tecnologia che non si adatta alle persone aumenta il rischio di errori, talvolta anche gravi (ricordate il caso del messaggio inviato per errore alle Hawaii?). Per quanto molti di questi programmi vengano usati spesso, non possono essere definiti intuitivi. Almeno non per tutti.

Un'interfaccia “intuitiva” è tale quando tutti gli utenti riescono ad eseguire tutte le task (o la maggior parte di esse) senza necessità di aiuti esterni. Alcune definizioni sottolineano anche l’assenza del “trial and error” nella definizione di “intuitiva”: effettuare tutte le task senza fare dei tentativi. Vorrebbe dire che tutti gli utenti partono da background simili, per poter arrivare alle medesime conclusioni.

Ma tutto questo, come ha dimostrato la ricerca, non è realistico. Non è possibile progettare interfacce davvero intuitive. È necessario trovare un punto di vista diverso.

Progettate esperienze di apprendimento

Dobbiamo cambiare approccio progettuale. Perchè la tecnologia si adatti davvero ad ogni tipo di utente, non possiamo più progettare solo flussi ed interfacce. Dobbiamo definire dei veri e propri percorsi di apprendimento dell’interfaccia, trasformando il concetto di intuitive interfaces in learnable interfaces: interfacce che aiutano gli utenti nel loro processo di apprendimento, adattandosi ai tempi e alle conoscenze di ciascuno. 

Nella pratica questo può essere fatto sia arbitrariamente, attraverso la costante analisi dei dati (poco consigliato), oppure attraverso strumenti di machine learning (decisamente più consigliato). Non è fantascienza: la tecnologia odierna permette già questo tipo di analisi. Ad esempio, Facebook circa un anno e mezzo fa ha introdotto la tab bar dinamica sulla propria app, personalizzata in base agli usi degli utenti. Ma potremmo fare tanti altri esempi: motori di raccomandazione, personalizzazione delle interfacce in base al luogo in cui un utente si trova…

Il limite sta soltanto nella nostra voglia di accogliere questa vecchia/nuova sfida: adattare le macchine alle persone e non le persone alle macchine.