Usare il metodo semio-narrativo per indirizzare il brand storytelling

La prima impressione è quella che conta (anche per i siti web).

In soli 50 millisecondi, l’utente deciderà se il tuo sito sarà di suo gradimento o meno, scegliendo quindi se continuare la navigazione o abbandonare la pagina. Solo 0,05 secondi, decisivi per il tuo business.

La prima impressione si genera dalla combinazione di più fattori, tra cui: struttura della pagina e organizzazione dello spazio, colori presenti, qualità e quantità di testo.

È fondamentale, quindi, indagare a fondo ciascuno di questi aspetti e considerare non solo gli elementi visivi, ma anche quelli testuali. Infatti, non bisogna dimenticarsi del modo in cui il tuo brand si racconta, per valutare se il posizionamento narrativo adottato risulta essere valido.

Spoiler: per fare tutto questo esiste uno strumento molto efficace. Noi usiamo la griglia narrativa (Narrative Grid): vediamo ora insieme di cosa si tratta.

Narrative Grid (o Griglia Analitica)

La Narrative Grid è uno strumento analitico e progettuale che può essere applicato a qualsiasi materiale di comunicazione come siti web, social network, contenuti commerciali, capace di indagare il modo in cui i segni visivi, verbali e cromatici vengono utilizzati.

È una metodologia definita da Joseph Sassoon - autore, ricercatore, consulente, Leader di Alphabet Research e nostro Senior Storytelling Advisor. Puoi leggerne un estratto in "Marketing Narrativo. Usare lo storytelling nel marketing contemporaneo", uno dei best seller di Joseph pubblicati da FrancoAngeli Editore.

Lo strumento si basa sui criteri di analisi e il rigore scientifico della Scuola semiotica francese, conosciuta anche come École de Paris, ed è stato adattato allo studio della comunicazione di impresa sia online che offline. 

Per esempio, l’applicazione della Narrative Grid a un sito web permette quindi di valutare in maniera oggettiva le strutture discorsive e le logiche di relazione proposte al visitatore. 

Nello specifico, consente di:

  • analizzare i codici visivi, cromatici, verbali 
  • valutare i linguaggi adottati
  • studiare i meccanismi persuasivi utilizzati
  • capire gli schemi narrativi messi in atto
  • identificare i principali posizionamenti comunicativi

L’analisi è essenziale per esaminare il tipo di comunicazione adottata da un brand, per determinare se l’uso dei segni favorisce engagement e dialogo con gli utenti.

Come è strutturata la Narrative Grid?

Parola d’ordine: rigore.

Un corretto utilizzo della Narrative Grid si basa sul rispetto di uno schema definito da 11 sezioni su 4 livelli.

Per stimolarti l'appetito, ti mostro ora un esempio concreto di applicazione di questo strumento molto potente.

Case study: l'analisi del sito web www.illimity.com

Tutti conosciamo illimity, il Gruppo bancario ad alto tasso tecnologico fondato e guidato da Corrado Passera. Una banca nata senza vincoli: senza i limiti del sistema tradizionale ma con la solidità e la serietà delle migliori esperienze.

All’interno di una benchmark analysis per un nostro cliente leader del mondo fintech, il nostro team di brand consulting ha applicato la Narrative Grid proprio per analizzare la consistenza narrativa del sito web istituzionale aziendale. Ripercorriamolo insieme.

Codici visivi

Il sito web di illimity presenta numerose immagini di persone, tra cui membri del team e clienti. Si percepisce un forte approccio human-centered, dato dai molti primi piani di persone. 

Inoltre, ci sono foto e video relativi a case history ed eventi aziendali passati. Tra i video, vengono proposti diversi format come per esempio “Storie di Illimiters” dove i dipendenti si raccontano.

Oltre alle fotografie, sono presenti anche illustrazioni grafiche nella sezione IlliimitHER, il programma di Diversity&Inclusion che ha l’obiettivo di valorizzare il potenziale delle giovani donne.

Codici cromatici

Focalizziamoci ora sull'utilizzo dei colori. I colori del sito riprendono più volte il simbolo del pittogramma: infatti, la landing page si caratterizza per l’utilizzo di gradienti cromatici, che vanno dall’arancione al rosa - una scelta distintiva nel settore bancario. Si evita però la sfumatura rossa, forse perché nel mondo banking non ha un’accezione positiva.

Il gradiente viene mantenuto anche nel footer, nelle sotto categorie, in alcuni titoli e dettagli come barra di scorrimento o grafici, proiettando un senso di ottimismo. In alcune sezioni i gradienti sono declinati anche in tonalità del viola, verde e azzurro.

La pagina “Cosa offriamo” presenta invece un’immagine con filtro nero, che si allontana dal resto del sito e può risultare una scelta poco coerente.

Le sotto sezioni di “Investor Relations” presentano invece uno stile più neutro, con sfondo bianco e alcune parole in risalto in arancione. È sicuramente una scelta in linea con il contenuto delle pagine e più adatta al target.

Nella sezione “Sostenibilità” si fa un uso primario di immagini in bianco e nero, che risulta in contrasto col resto del sito.

Codici verbali

Navigando il sito, notiamo che il linguaggio è focalizzato su illimity (“noi”, “siamo”, “nostro”…): prevale infatti l’uso della prima persona plurale, il che può impattare negativamente il coinvolgimento diretto con l’utente. La forma “tu” è presente solo in call to action come “scopri di più” o “compila il form”.

In alcuni casi, si fa riferimento all’azienda in terza persona (“illimity fornisce credito ad imprese ad alto potenziale”). Nei titoli si fa spesso uso di frasi nominali e numerose sono le citazioni di membri del team.

Temi

Nel sito web ci sono due principali temi ricorrenti: l’innovazione e la novità. Infatti, vengono spesso utilizzate parole come “nuovo” e “innovativo”, come ad esempio:

  • banca di nuovo paradigma
  • servizi di nuova generazione
  • banca profondamente nuova

Un altro tema proposto è quello della rottura col passato e la tradizione bancaria, che viene comunicato dal brand name stesso e ripreso in varie descrizioni: “illimity, una banca senza i limiti del sistema tradizionale”.

Figure

Come abbiamo visto anche nell'analisi dei codici visivi, le persone hanno un ruolo centrale: ciò serve per comunicare inclusione e apertura. Viene mostrato l’intero team di illimity, tramite foto e video di presentazione; il programma IllimitHER si focalizza invece sulle donne in ambito STEM; la sezione “illimity stories” racconta i percorsi di crescita e sviluppo di PMI italiane insieme ad illimity.

Vengono mostrati anche gli spazi di lavoro, come uffici e sale riunioni ed eventi aziendali passati, tra cui workshop e sessioni di team building.

Struttura retorica

Il sito non presenta una grande struttura retorica e manca di metafore significative. Troviamo però due anafore, efficaci nel rafforzare i messaggi:

  • Siamo il Gruppo illimity, il nostro impegno è andare oltre. Oltre la forma, oltre le abitudini del passato.
  • Noi siamo / Noi viviamo / Noi crediamo / Noi agiamo 

Tempo e spazio

Il sito di illimity si focalizza sul futuro, visto come contrapposizione alle tradizioni e al passato. Questa scelta trasmette dinamismo e desiderio di stare al passo con i tempi. Incentrato sul futuro e sull’innovazione è anche il format “illimity Talks”. 

Essendo una realtà quotata, il passato risulta essere rilevante, soprattutto per quanto riguarda i Financials.

Per quanto riguarda lo spazio aziendale, la sede di illimity viene ben rappresentata e valorizzata in chiave di sostenibilità.

Attanti e archetipi

Nel caso di illimity, gli attanti sono i seguenti:

  • Addresser: la storia è resa possibile da illimity
  • Heroes: gli eroi sono le PMI italiane, i privati e le famiglie
  • Mentor: illimity orienta gli eroi sulla strada da prendere
  • Helper: soluzioni e servizi finanziari di illimity
  • Object of Value: per le PMI, l’oggetto di valore è ricevere supporto anche in situazioni complesse; per privati e famiglie, avere soluzioni finanziarie innovative.

Una volta definito lo schema d’azione, è necessario riflettere sull’archetipo del brand in analisi, per valutare l’efficacia delle scelte comunicative e definire la strategia futura. 

Sul piano degli archetipi, illimity si definisce come Creator, ovvero un brand:

  • che introduce qualcosa che prima non esisteva 
  • che promuove innovazione e libertà di espressione.

Come archetipo secondario, illimity può essere collegata all’Explorer, con qualche nota di Outlaw:

  • è disruptive e vuole superare i limiti imposti dal sistema bancario tradizionale
  • esalta la libertà e non teme il cambiamento.

Modalità narrative

L’enunciato essere prevale in tutto il sito web e questo risulta essere in linea con la centralità di illimity nella comunicazione sul sito. Ecco alcuni esempi:

  • “Noi siamo una banca”
  • “La nostra sede è situata a Milano”
  • “Noi ci siamo sempre stati”
  • “Siamo una sustainable native company

L’enunciato di fare si ritrova soprattutto nella sezione “Cosa offriamo”, con l’utilizzo di verbi come: forniamo, operiamo, acquistiamo, eroghiamo.

Invece, non vengono sfruttate le modalità narrative di volere, potere, dovere e sapere. 

Valori profondi

Siamo arrivati al livello più profondo (e ultimo!) della Narrative Grid, ovvero quello valoriale.

I valori trasmessi dal sito di illimity sono:

  • Diversità
  • Inclusione
  • Innovazione
  • Libertà
  • Responsabilità
  • Sostenibilità

I valori di Diversity&Inclusion sono pilastri fondamentali nel sito e vengono trasmessi soprattutto dal format IllimitHER.

L’innovazione è un valore che emerge in ogni sezione del sito e viene declinato in diversi modi, sul piano tecnologico, di prodotto e umano.

Conclusioni: la Narrative Grid come potente strumento di comunicazione

Come mostrato da questa analisi, la griglia narrativa - e in generale un approccio semio-narrativo alla brand communication - può rivelarsi una leva molto potente e utile per ottimizzare lo stesso brand storytelling. 

La stessa Narrative Grid, se approcciata nel verso opposto rispetto a quello usato per il caso illimity, si rivela anche un tool di progettazione di contenuti rilevanti.


La narrazione del movimento body positive, il caso @belledifaccia

Questo articolo è stato scritto da Maddalena Bianchetti, ex studentessa del Master in Comunicazione Digitale, Mobile e Social all’Università degli Studi di Parma, e fa parte di una serie di post dedicati alla body positivity.

Mi occupo di comunicazione per il sociale, che per me significa saper tradurre in modo accessibile contenuti e visioni inclusive, potenzianti e partecipative. Gli anni di lavoro nel terzo settore mi hanno portato ad acquisire competenze trasversali, supportate da un approccio pragmatico e flessibile. Oltre a lavorare faccio cose e vedo gente. Su tutto: amo pattinare e andare in montagna.
Maddalena Bianchetti

All’interno di Instagram persone con corpi non convenzionali, mediante l’utilizzo di hashtag, decidono di postare selfie con lo scopo di sfidare i beauty standards ed aderire alla filosofia body positive. Grazie alla disintermediazione e alle possibilità offerte dalla rete, gli spazi online diventano luoghi che favoriscono e permettono l’autodeterminazione e l’inserimento all’interno di diverse comunità, si creano zone sicure, in cui è possibile condividere storie e immagini senza il timore del giudizio e delle opinioni altrui, in cui tutti i corpi sono liberi di sentirsi accettati.

Mercificazione della body positive  

Instagram non consiste unicamente in una piattaforma attraverso cui gli utenti sviluppano una rappresentazione del sè: sempre più spesso le aziende creano engagement con gli utenti attraverso influencer, al fine di raggiungere nuovi target ed ampliare il proprio mercato. Una delle strategie messe in pratica su Instagram, consiste nel personal branding, ossia quell’idea secondo cui individui, proprio come i prodotti, beneficiano di un’identità brandizzata che risponde ai bisogni del target. Questo meccanismo funziona alla perfezione se prendiamo in analisi l’industria del beauty in tutte le sue sfaccettature: c’è una speculazione molto capitalistica di ciò che è la bellezza, i brand sfruttano il senso di inadeguatezza cercando di vendere prodotti per ‘aggiustare’ delle caratteristiche fisiche che dovrebbero essere considerate normali.

Belle di faccia

Ilprogetto Belle di faccia nasce nel 2018 come profilo Instagram e nel 2019 diventa un’associazione. L’idea ha origine dalla necessità di riportare i corpi grassi al centro del movimento body positive italiano, con un particolare focus sulla Fat Acceptance e la Fat Liberation. “Belle di faccia” è la microagressione più frequente che Chiara Meloni e Mara Mibelli, le due fondatrici del progetto, hanno subito. Dopo anni passati a sentirsi “belle di faccia” lo hanno trasformato nel loro nome di battaglia, quando ormai gli era chiaro che l’insistenza nel volersi soffermare sui tratti gradevoli del viso non stava nella loro particolarità, quanto nella necessità di porre l’accento sul fatto che la bellezza fosse circoscritta ai loro visi che erano finiti sopra un corpo non conforme. Come fanno tanti movimenti si sono appropriate di un insulto e lo hanno trasformato in un motto riconoscibile. La mission delle fondatrici non è affatto semplice: rendere fruibili a un pubblico eterogeneo molti dei concetti come la grassofobia e la fat acceptance. “In un paese dove non esiste una letteratura sui fat studies, non c’è neanche consapevolezza dello stigma, né l’intenzione di voler andare oltre il mero pregiudizio e analizzare una questione che invece si porta dietro anni di lotte e di studi”.

Attivismo digitale e long-form

Quello che Chiara e Mara fanno attraverso i loro canali web è definibile attivismo digitale, una forma di attivismo che usa Internet e i media digitali come piattaforme chiave per promuovere il cambiamento sociale e ha come obiettivi la mobilitazione di massa e l’azione politica. In questi anni i social hanno ricoperto un ruolo sempre più rilevante nell’arricchimento del nostro mondo delle idee: temi prima ritenuti faticosi come il razzismo, la politica, l’economia, oggi risultano più immediati e fruibili. Per riuscire a veicolare un messaggio di cambiamento sociale e politico che sia veramente efficace non è possibile utilizzare solo frasi ad effetto, come fanno molti profili con il brand feminism, quello che è importante è far passare concetti che siano chiari e che raccontino una storia. Per fare questo viene utilizzato il cosiddetto long formLong form è qualunque contenuto, in qualsiasi formato, concepito esplicitamente per ingaggiare l’attenzione delle persone (lettori e lettrici, ascoltatori e ascoltatrici, spettatori e spettatrici...) per un tempo superiore ai pochi minuti e con l’intenzione di approfondire un argomento. 

Se contenuti brevi possono favorire una comunicazione mirata, rapida e diretta, i contenuti più lunghi sono utili per ottenere livelli di riflessione più profondi. E questo accade perché a chiunque piace ascoltare, leggere e assorbire una storia. Il formato lungo assume forme molto diverse e in alcuni casi si nasconde in luoghi in cui siamo abituati a una fruizione isterica e a uno scroll compulsivo: è il caso degli account Instagram dove è possibile approfondire, raccontare storie, occupare uno spazio e un tempo che supera i pochi minuti di fruizione.

Il profilo Instagram @belledifaccia

Il profilo di@belledifaccia rappresenta un caso comunicativo interessante, il loro attivismo digitale si pome l’obiettivo di cambiare la narrazione della body positivity e far comprendere che questo movimento è prima di tutto sociale e politico. Una delle azioni che viene compiuta attraverso i testi dei post è la rivendicazione del termine grasso: attraverso il loro profilo @belledifaccia demoliscono l’accezione negativa di questo termine utilizzandolo come risposta alla fatfobia. La grassezza è vista come qualcosa che deve essere corretta partendo dalla rivalutazione di questo termine si modifica la narrazione passando così da un significato negativo ad uno neutrale.

Nonostante la serietà degli argomenti trattati, i testi utilizzati sono sarcastici e spesso irriverenti, una combinazione che si rivela vincente perché queste caratteristiche riescono a incuriosire e stimolare l’interesse dell’utente che riesce ad affrontare i testi lunghi, i copy di @belledifaccia non sono mai più corti di 1000 caratteri, e partecipare attivamente alla discussione commentando e rilanciando con apprezzamenti e osservazioni più o meno approfondite.

Il tono ironico e deciso si intuisce immediatamente anche dal visual, dove viene introdotto l’argomento affrontato dal post attraverso parole semplici e dirette.

Le immagini sono ben studiate e si sposano perfettamente con i toni del copy, il visual è molto riconoscibile: illustrazioni dai colori vivaci ed accattivanti con linee marcate accompagnate da un claim dal font calligrafico. Le illustrazioni sono originali ad opera di Chiara Meloni una delle due fondatrici di BDF (Belle di Faccia).

Le immagini realizzate appositamente rispecchiando il topic del post, possono essere autobiografiche, ritrarre influencer internazionali della body positivity come nel caso di @sofiehagendk o attivisti e attiviste nazionali, per esempio @g.varchetta attivista LGBTQI+ e contro l'abilismo, o @marina_cuollo anche essa attivista contro l’abilismo. Queste persone collaborando con Belle di Faccia e introducono argomenti che rientrano nella macro sfera del movimento. La scelta di riprodurre ritratti illustrati, risulta vincente perché permette ai due profili coinvolti di far incontrare i pubblici che sono interessati a facce diverse dello stesso argomento, attraverso un engagement immediato. Con il loro digital activism @belledifaccia si inseriscono nel discorso della body positive con toni irriverenti e l’utilizzo di long-form, sradicando l’idea che l’attivismo per i corpi grassi siano solo slogan stampati su magliette. 

Attraverso i social media, la body positivity cambia una narrazione tossica, distaccata da quella che è la realtà quotidiana delle persone.

Instagram è lo strumento principale con cui si svolge la discussione e dove i dubbi intorno alla body positivitysono spinti oltre, invogliando gli utenti e le utenti a reclamare il proprio potere, allontanandoli dalle norme sociali e vivendo vite autentiche ad alta voce.

Attraverso i social media, la body positivity cambia una narrazione tossica, distaccata da quella che è la realtà quotidiana delle persone. Instagram è lo strumento principale con cui si svolge la discussione e dove i dubbi intorno alla body positivitysono spinti oltre, invogliando gli utenti e le utenti a reclamare il proprio potere, allontanandoli dalle norme sociali e vivendo vite autentiche ad alta voce.


Body image e social network

Questo articolo è stato scritto da Maddalena Bianchetti, ex studentessa del Master in Comunicazione Digitale, Mobile e Social all’Università degli Studi di Parma, e fa parte di una serie di post dedicati alla body positivity.

Mi occupo di comunicazione per il sociale, che per me significa saper tradurre in modo accessibile contenuti e visioni inclusive, potenzianti e partecipative. Gli anni di lavoro nel terzo settore mi hanno portato ad acquisire competenze trasversali, supportate da un approccio pragmatico e flessibile. Oltre a lavorare faccio cose e vedo gente. Su tutto: amo pattinare e andare in montagna.
Maddalena Bianchetti

Quando parliamo di body positivity quello a cui ci riferiamo è un movimento che combatte il body shaming e cerca, attraverso l’inclusività delle sue campagne, di eliminare i pregiudizi e le discriminazioni a cui vengono sottoposti i corpi delle persone. Non si tratta quindi solo di self-love, sicurezza, accettazione del proprio corpo e autostima, ma di una vera e propria rivoluzione culturale e sociale.

Da quando esistono i beauty standards grazie ai quali identificare un corpo come “bello” o “brutto”? Che cos'è la body positive? Come la body positivity viene affrontata sui social network? Per riuscire ad avere una visione completa del movimento body positive è utile tracciare un percorso nel mondo moderno, toccando le tappe di quegli avvenimenti che hanno portato alla creazione di standard di bellezza contemporanei e analizzare l’influenza che i mezzi di comunicazione hanno avuto per arrivare alla pratica di esibizione del sé tipica dei social media.

Excursus sui canoni estetici e la loro raffigurazione 

I canoni di bellezza, che definiscono ciò per che per una cultura o una società viene percepito come bello, sono per loro natura mutevoli perché fortemente influenzati dal contesto sociale in cui si sviluppano. Tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90 gli stereotipi vengono rafforzati attraverso la rappresentazione mediatica. Nelle serie TV, spesso nelle sitcom, più il peso è elevato più è probabile che si incorra in giudizi negativi e battute circa il corpo dell’attrice o dell’attore, con aggiunta di reazioni e risate da parte del pubblico - per esempio Monica in F.r.i.e.n.d.s. - sancendo un’implicita approvazione sociale dello schermo verso persone che non aderiscono a standard corporei tradizionali. Questa rappresentazione del corpo rafforza e rende socialmente accettato lo scherno verso soggetti sovrappeso, e genera il cosiddetto fat shaming.

Ma i media non sono per forza uno strumento negativo. Per esempio l’avvento del World Wide Web, all’inizio degli anni 90, permette l’apertura di nuovi spazi di discussione che consentono una libertà di confronto senza filtri. Così nasce la fatosphere, uno spazio virtuale fatto di blog e siti web in cui è possibile proporre una visione e una narrativa proprie permettendo la creazione di community attraverso la condivisione di esperienze.

Immagine corporea e social 

La body image è la visione del proprio corpo basata sulla percezione altrui, è elastica e largamente influenzata dal confronto con il mondo esterno. I fattori che maggiormente segnano la percezione dell’immagine corporea sono i media, tradizionali e non, perché stimolano la comparazione del proprio corpo con quelli rappresentati su questi canali.

Uno degli strumenti che più spesso viene utilizzato sui social media per l’auto narrazione è il selfie; proclamata parola del 2013 dall’Oxford Dictionary, viene definita come: “A photograph that one has taken of oneself, typically one taken with a smartphone or webcam and shared via social media”. Questo meccanismo di auto-vetrinizzazione raggiunge la sua massima espressione su Instagram dove, ogni utente, espone una collezione di differenti fotografie e selfie, in cui attendere l’approvazione tramite like e commenti. Ma come abbiamo precedentemente affermato, il web e i social non sono solo luoghi frivoli di mercificazione del sé: è possibile incontrare alcuni movimenti che tentano di collegare le nuove pratiche diffuse online al concetto di empowerment.

Alcuni soggetti condividono la propria immagine con lo scopo di dimostrare che la cultura del guardare e dell’essere guardati può esistere al di fuori del concetto di oggettivazione. Postare selfie, che differiscono dai canoni di bellezza, crea un contesto di controcultura che insegna a individuare una nuova percezione estetica, creando un contrasto visivo in un contesto dominato da immagini aderenti a rigidi canoni estetici. 

Body Positivism: breve storia e significati

Ma che cos'è e quando nasce la body positive? Le sue origini si trovano negli anni ‘60, più precisamente all’interno del movimento di fat acceptance. Negli anni ‘90, con la terza ondata femminista, questi temi guadagnano importanza affrontando discorsi legati alla politica dei corpi e alla discriminazione di quelli non conformi. Nel 1996 Connie Sobczak e Elizabeth Scott fondano The Bodypositivecon lo scopo di costruire una comunità di supporto per aiutare tutte quelle persone, che almeno una volta, si sono sentite limitate dalla tipologia di corpo-messaggio nel quale le persone non conformi ai canoni di bellezza occidentali, vengono etichettate come sbagliate.

Attraverso la rete questo movimento cresce diffondendo il principio per cui tutti i tipi di corpo sono meritevoli di rispetto e hanno valore in quanto tali, indipendentemente da ciò che sentenziano le norme sociali e i beauty standards. Secondo questo movimento nessuna persona dovrebbe sentirsi inadeguata a causa del proprio corpo e del suo aspetto estetico, del colore della pelle, dei ‘difetti’ o delle disabilità. 

Later Hater " illustrazione di Chiara Meloni"

Il movimento body positive è nato come una rivendicazione ma si è evoluto ed ha coinvolto l’aspetto sociale perché i corpi vanno trattati in modo sistemico: lo scopo del body positivity non è far accettare all’individuo il proprio corpo, ma è pretendere che il sistema cambi riconoscendo che il valore della persona non sia determinato dalla sua aderenza o meno ad un certo canone estetico. Il punto centrale di questo movimento è trattare lo stigma del body shaming come una questione culturale e quindi politica, perché si ha a che fare con il controllo sui corpi, che porta le persone non conformi a non poter attuare delle scelte di vita libere.


Zero UI: quando l'interfaccia utente diventa invisibile

What separates good content from great content is a willingness to take risks and push the envelope.
Brian Hallingam, CEO & Co.Founder Hubspot

Grazie all'avvento dell'intelligenza artificiale, i chatbot e i dispositivi vocali come Alexa o Amazon Echo che funzionano tramite l'elaborazione del linguaggio e l'apprendimento automatico, sono saliti alla ribalta e hanno visto una forte esposizione mediatica. C'è una rivoluzione silenziosa in atto, o per meglio dire "invisibile". È avvenuto il passaggio a un percorso di progettazione "No UI", unicamente basato sui dati e sugli algoritmi delle macchine. Scopriremo di seguito perché gli UI / UX designer sono tenuti a creare sistemi più intelligenti e più utili che vadano ben oltre il design delle interfacce grafiche.

Le interfacce utente invisibili

L'intelligenza artificiale, i chatbot e i comandi vocali come Siri e Alexa stanno dirottando i progettisti dell'interfaccia utente oltre gli stessi schermi, verso la corrente delle interfacce utente "invisibili". Conosciuto anche come Zero UI, i gesti naturali, la voce, i tratti del viso e la biometria stanno gradualmente prendendo il sopravvento sulle comunicazioni dei dispositivi tecnologici. In effetti, le interfacce utente vocali (VUI) hanno già raggiunto un buon posizionamento e questo significa che la VUI continuerà a crescere, fino a diventare sempre più familiare nel web marketing e nella digital Communication.

Se prendiamo in considerazione il caso di Amazon Echo e Google Home vediamo che entrambi i device hanno aumentato il tasso di adozione di +24% nell'ultimo trimestre. Progettare per l'interfaccia utente invisibile significa utilizzare modelli di conversazione universali nell'esecuzione di comandi che sono tipicamente brevi e ricorsivi. Ciò contribuirà a ridurre il carico cognitivo e a prevenire la confusione dell'utente che potrebbe rinunciare e abbandonare l'applicazione.

L'acquisto online implica un'esperienza utente meno impegnativa rispetto all'andare in un negozio fisico. Invece di curiosare nel corridoio di un negozio e aspettare una lunga fila per pagare, i clienti attraverso pochi clic sullo schermo dello smartphone, pagano bollette o eseguono transazioni bancarie. L'intelligenza artificiale può aiutare i progettisti ad anticipare i modelli di comportamento di acquisto e le preferenze dei prodotti. Gli algoritmi delle macchine si basano sulle loro precedenti interazioni e a loro volta, i progettisti di UI/UX possono utilizzare questi requisiti definiti dall'intelligenza artificiale per migliorare costantemente il loro front-end e offrire un'esperienza utente più veloce.

I progettisti dell'esperienza utente devono, quindi, progettare un'interazione tra il modello di apprendimento automatico e i suoi utenti per fornire un feedback non solo costruttivo ma anche diretto. Un buon esempio è posizionare una semplice icona del pollice in su o del pollice in giù nella parte inferiore di ogni output per fornire una reazione rapida e semplice di come funziona l'algoritmo. Queste risposte positive o negative possono essere generate regolarmente e possono essere utilizzate come input dai data scientist per migliorare ulteriormente il loro algoritmo.

No matter how cool your interface is, it would be better if there were less of it. 
Alan Cooper, Author 'About Face: The Essentials of Interaction Design'

Test A / B ricorsivi

I designer spesso utilizzano lo split test per sapere quale versione dei loro progetti funziona meglio per il cliente. In genere, ciò significa produrre due versioni di un sito Web o un'applicazione e farle utilizzare da utenti che appartengono a diverse fasce d'età. Con l'intelligenza artificiale, i progettisti possono sostituire gli A/B test con algoritmi di apprendimento automatico. Prendiamo il caso di Netflix: attraverso i big data raccolti in tempo reale da milioni di interazioni degli utenti, Netflix non solo può aggiornare continuamente il proprio design in relazione alle preferenze e al feedback degli utenti, ma anche consigliare efficacemente i contenuti non solo a determinati segmenti di clienti ma a specifici abbonamenti individuali.

User Journey e AI

Chatbot, dispositivi abilitati alla voce, elaborazione del linguaggio e apprendimento automatico hanno cambiato il gioco nella progettazione dell'interfaccia utente/UX. È tempo che i progettisti vadano oltre il "pensiero basato sullo schermo" per passare a una "Zero UI" e alla progettazione basata sui dati. La creazione di sistemi più intelligenti e utili che si elevano al di sopra della vecchia interfaccia grafica, richiede menti creative che non si limitano a realizzare soluzioni front-end.

I progettisti di UI / UX devono spostare la loro attenzione dalla risoluzione dei problemi alla creazione di un sistema che si adatti non ai computer, ma alle persone.


I trend della personalizzazione: otto fattori per aumentare le performance nella tua azienda

We believe if we take good care of our employees, they will take good care of our customers. And that commitment drives our culture
James Ashworth, Customer Support and Services, Southwest Airlines

I trend dell’Interim Normal ci insegnano che l’approccio tradizionale alla differenziazione (sia nel mercato retail online, sia nell’offline) non è più efficace a garantire la sopravvivenza dei brand nel panorama attuale. Progettare una capsule collection, definire un pricing strategico oppure avviare delle promozioni, sono parametri non più bastevoli a definire la unique selling proposition perchè queste tattiche possono essere facilmente imitate dai competitor. Ma come differenziarsi in un mondo in cui le aspettative del pubblico di riferimento sono sempre più ambiziose?

Dall’employee experience (EX) alla customer experience (CX)

I programmi di personalizzazione di successo rendono i clienti più coinvolti e aumentano la redditività dell’azienda. Nel complesso, un'esperienza d’acquisto positiva è estremamente significativa per il successo di un retailer: produce tassi di soddisfazione del consumatore superiori al 20%, un aumento del 10-15% dei tassi di conversione delle vendite e un aumento del coinvolgimento dei dipendenti dal 20 al 30%.

Questo studio condotto da McKinsey, infatti, ha dimostrato che le aziende più performanti sono quelle che integrano la differenziazione del processo d’acquisto attraverso programmi rivolti specificamente ai clienti abituali. La fedeltà della marca è un fattore che produce un ROI tre volte superiore a quello delle promozioni “di massa”, ovvero rivolte a clienti prospect. Investire nei clienti più fedeli, è il primo passo che, chi si occupa di retail, deve compiere, per raggiungere tassi di risposta e conversione più elevati. Allora perché investire nell’employee experience

The thing I love the most about my job is the people I work with at Southwest Airlines. 
James Ashworth, Customer Support and Services, Southwest Airlines

Le innovazioni della personalizzazione promosse da un’azienda, afferma Ashworth (responsabile del Customer Support Team della compagnia aerea Southwest Airlines) derivano da un cambio di mindset degli stessi dipendenti che devono loro stessi supportare e spronare le sperimentazioni che la personalizzazione on-offline richiede. In altre parole i primi consumatori sono le stesse persone che ogni giorno lavorano in azienda per perfezionare il prodotto/servizio. Quindi, considerato che i dipendenti sono i primi utilizzatori e consumatori, è bene implementare l’employee experience per affermare poi una customer experience di successo che avrà come risultato l’aumento della reddività dell’azienda

L’hygiene factor

Se pensiamo a brand come Amazon o Sephora comprendiamo che la personalizzazione non è limitata all’offerta, ma si estende all’intera esperienza d’acquisto. Ciò implica che i consumatori desiderano un contatto personalizzato con il brand, una sorta di “tocco umano” che li accompagni in tutte le interazioni con l’azienda, attraverso touchpoint personalizzati.

La one-to-one personalization avviene non solo quando il cliente riceve un’offerta targettizzata sugli interessi di altri consumatori come lui, ma si ha quando egli percepisce che quel tipo di offerta e quel tipo di comunicazione (newsletter, suggerimenti d’acquisto ecc..) è stata indirizzata a lui in quanto individuo ed è rilevante unicamente per lui.

Grazie ai pionieri del mercato online, come Amazon, i consumatori hanno accresciuto le loro aspettative e il desiderio di esperienze uniche: un sondaggio rivolto a un campione di circa 1000 candidati, da Epsilon and GBH Insights, ha dimostrato che la maggior parte dei rispondenti, circa l’80%, desidera esperienze d’acquisto personalizzate. La personalizzazione può essere definita anche hygiene factor e consiste nella pratica per cui i consumatori danno per scontati alcuni servizi e se un retailer commette un’errore nella differenziazione della propria offerta, il cliente può abbandonarlo per scegliere un suo competitor.

Gli otto fattori di successo per il business aziendale

Ogni fase del percorso, dall’analisi dei dati alla sperimentazione delle tecniche di personalizzazione, è volta ad affermare le performance del brand per costruire una customer journey di successo. La recente ricerca di McKinsey ha indicato che solo il 15% dei retailer ha implementato completamente strategie di personalizzazione: più dell'80% sta ancora definendo una strategia o ha avviato iniziative pilota. Di seguito vediamo gli otto fattori per personalizzare il viaggio del cliente.

FONTE: McKinsey & Company
  • Il primo elemento consiste nella gestione dei dati: selezionare i dati appropriati conta di più rispetto a raccogliere tutte le informazioni disponibili. Qualità è la parola d’ordine rispetto a quantità. 
  • Procedere con una personalizzazione one-to-one. Analizzare il target e operare con una segmentazione del pubblico di riferimento serve a diversificare l’esperienza d’acquisto.
  • Il terzo fattore consiste nel dare risposte a determinati fattori scatenanti, come l'abbandono del carrello in un e-commerce oppure la ricerca di articoli che appartengono a una raccolta o categoria merceologica più ampia
  • Il quarto elemento consiste nel coordinamento della campagna onmichannel, per non inviare messaggi contrastanti o inappropriati.
  • Per cross-functional team” si intende un team eterogeneo: ingegneri ed esperti di marketing dovrebbero essere tutti in una stessa stanza. L'obiettivo è abbattere i silos organizzativi e avere team misti che lavorino insieme per aumentare il ritmo e la qualità.
  • Far lavorare insieme i vari sistemi nella stessa direzione è costituire il core business di un'organizzazione. La maggior parte dei rivenditori non massimizza il valore che le loro piattaforme tecnologiche esistenti possono offrire, quindi unificare i sistemi ne ricaverà più valore lungo il percorso. 
  • L’ultimo fattore mette in luce che i retailer dovrebbero intraprendere questo sforzo con un approccio di test and learning. Non è necessario aspettare di raggiungere la perfezione. Meglio, invece, iniziare in piccolo con un'esperienza semplice che generi un impatto positivo, verificare l'efficacia di quell'idea, testare e ripetere. Man mano che l'impatto risultante viene quantificato e le intuizioni generate dagli esperimenti vengono massimizzate, si arrivierà a un sostanziale miglioramento nella personalizzazione dell’esperienza.

Quando è il consumatore ad essere l’ago della bilancia, la risposta dei retailer deve essere non solo quella di soddisfarlo con un’esperienza d’acquisto altamente personalizzata, per sopravvivere nel mercato. La personalizzazione diventa, in questo caso, il vantaggio competitivo della marca e le consente di prosperare a lungo termine. 


Nuove soluzioni per il Retail nella Low Touch Economy

Questo articolo è stato scritto da Marco Gaggiano, ex studente del Master in Comunicazione Digitale, Mobile e Social all’Università degli Studi di Parma, e fa parte di una serie di post dedicati al presente e al futuro della customer experience.

Nato in Puglia nel 1991, ho attraversato lo stivale per studiare ingegneria a Torino. Negli anni universitari ho iniziato a coltivare una forte passione per il digital marketing, che col tempo si è trasformata nel mio lavoro. Bologna è la mia nuova casa, tecnologia e fotografia i miei più grandi passatempi.
Marco Gaggiano

Qui puoi leggere l'ultima analisi.

Il ruolo dei brand è di ricreare le condizioni perché le persone riportino spontaneamente l’attenzione sui prodotti non-emergenziali.
Covid-19: i brand e le persone, Ogilvy Consulting

Il “modello del formaggio svizzero”, adattato al coronavirus dal virologo Ian M. Mackay, illustra con chiarezza perché solo l’unione di una serie di prescrizioni e interventi riesce a contrastare efficacemente l’avanzamento della pandemia. D’altro canto, come sappiamo, la sua applicazione ha provocato pesanti ricadute sul settore del Retail. 

I negozi fisici hanno dovuto attuare procedure rigide per garantire il distanziamento e la sanificazione costante degli ambienti: tamponi rapidi, ingressi contingentati, misurazione della temperatura, gel disinfettante, segnaletica sui pavimenti e protezioni in plexiglass alle casse sono solo alcune delle misure adottate per salvaguardare la salute dei clienti e dei dipendenti. 

Grandi colossi sono stati costretti a valutare un completo riassetto della rete di distribuzione. Un esempio su tutti: Inditex, gruppo spagnolo a cui fanno capo brand del fast fashion come Zara, Pull&Bear e Bershka, la scorsa estate ha annunciato la chiusura di 1200 negozi e il contemporaneo potenziamento dei canali di vendita digitali. Una scelta drastica, accompagnata alla fine dell’anno fiscale da un calo del 70% dell’utile netto rispetto al 2019, che solo il boom delle vendite online è riuscito parzialmente ad addolcire.  

I negozi fisici al servizio dell’e-commerce

In apparente controtendenza con la situazione appena esposta, ad ottobre Zara ha inaugurato uno store a Pechino. Con 350 metri quadri su quattro livelli, è il suo maggiore punto vendita in Asia. Postazioni per i pagamenti rapidi, area dedicata all’evasione degli ordini online, showroom delle ultime collezioni acquistabili su www.zara.com contribuiscono a restituire al cliente un percorso perfettamente integrato con quello digitale.

Nel futuro prossimo del commercio al dettaglio il negozio fisico si trasformerà sempre più in un hub di supporto all’ecommerce, associando alle operazioni logistiche del dark store il carattere di esperienzialità del phygital shopping riducendo, allo stesso tempo, le possibilità di contatto fisico e il rischio di contagio. 

Nel suo primo articolo dedicato all’impatto del Covid-19 sulla customer experience, McKinsey ha citato il caso del punto vendita Nike nel quartiere SoHo di New York, che permette di provare le scarpe in ambienti sportivi simulati con l’assistenza di un personal trainer. 

FONTE IMMAGINE: Nike News

Ma possiamo prendere in considerazione anche i negozi Amazon Go, dove al cliente basta scansionare i codici dei prodotti scelti per pagare attraverso canali digitali senza passare dalle casse, o il progetto degli “smaller format IKEA store” all’interno delle grandi città, in cui all’approccio omnicanale si aggiungeranno servizi come la progettazione degli spazi interni e il noleggio degli arredi.

I tech touchpoint abbattono le distanze

Tecnologia e innovazione si dimostrano, ancora una volta, gli unici abilitatori capaci di garantire una shopping experience compatibile con le limitazioni imposte dalla Low Touch Economy. 

Il viaggio del cliente si arricchisce di nuovi touchpoint in grado di restituire immediatezza e immersività in ogni fase del percorso d’acquisto, sia in presenza (quando consentito) che a distanza:

  • chatbot per l’assistenza pre e post-vendita;
  • touchscreen per gli acquisti in modalità self-service;
  • sistemi di gestione delle code virtuali e di prenotazione degli appuntamenti con uno shop assistant;
  • showroom virtuali in videocall o in live streaming;
  • soluzioni di realtà aumentata, realtà virtuale e mixed reality per l’osservazione, la personalizzazione e la prova dei prodotti;
  • mobile wallet per i pagamenti in sicurezza;
  • droni per il delivery dell’ultimo miglio.

Paid media vs Owned media

Nel 2020 il numero di utenti connessi a internet e attivi sulle piattaforme social, il tempo speso nelle attività digitali e il consumo di contenuti online sono aumentati considerevolmente. Di conseguenza, le aziende hanno incrementato i volumi di investimento sugli owned media e nel digital advertising.

motori di ricerca continuano a costituire il canale preferenziale per la scoperta e la ricerca di brand e la visita al sito web dell’azienda supera di gran lunga qualsiasi altra attività online brand-related, ma la social search registra un trend in crescita tra le giovani generazioni. Se a ciò aggiungiamo l’importanza e le potenzialità (ancora parzialmente inespresse) di strumenti di social commerce come Facebook e Instagram Shops, capiremo perché nei prossimi 5 anni un quarto del budget riservato alle operazioni di marketing potrebbe essere destinato ai social media.

Tuttavia, bisognerà fare i conti con il fenomeno crescente della sovrapposizione dei pubblici: già oggi il 98% degli utenti attivi su una piattaforma lo è anche su un’altra e ogni persona possiede in media 8 diversi account.

La soluzione può essere: ricercare un solido equilibrio tra presenza organica e a pagamento ed evitare che i consumatori siano esposti più volte, su canali diversi, agli stessi contenuti. Questi sono sforzi strategici che i content manager non potranno ignorare. Perché la qualità della comunicazione di un brand non è più solo un requisito sufficiente a decretare il successo o il fallimento di una campagna di marketing, ma un indicatore chiave dello “stato di forma” di quel brand.


La customer experience nell’era post-Covid. È l’ora della Customer’s Experience

Questo articolo è stato scritto da Marco Gaggiano, ex studente del Master in Comunicazione Digitale, Mobile e Social all’Università degli Studi di Parma, e fa parte di una serie di post dedicati al presente e al futuro della customer experience.

Nato in Puglia nel 1991, ho attraversato lo stivale per studiare ingegneria a Torino. Negli anni universitari ho iniziato a coltivare una forte passione per il digital marketing, che col tempo si è trasformata nel mio lavoro. Bologna è la mia nuova casa, tecnologia e fotografia i miei più grandi passatempi.
Marco Gaggiano

In una recente riflessione per Forbes sul futuro post-pandemico del Retail, Brian Solis (Global Innovation Evangelist in Salesforce) ha riportato l’esperienza di Ikea USA attraverso la prospettiva del suo Chief Digital Officer, Umesh Sripad. Per reimmaginare una customer experience che rispondesse ai nuovi comportamenti d’acquisto dei clienti e alle limitazioni imposte dalle misure di contenimento del contagio sono risultati fondamentali:

  • un approccio digital-first, sostenuto da una diversa cultura dei dati rispetto al passato;
  • l’abbattimento delle distanze tra touchpoint fisici e digitali attraverso l’adozione di soluzioni ibride progettate in ottica omnicanale, come l’app IKEA Place.
https://youtu.be/vMBTlypMgz8

Nell’Interim Normal centralità del cliente, omnicanalità e analisi dei dati diventano fattori ancora più determinanti per compiere quel salto da Customer Experience a Customer’s Experience che Solis indica già da tempo come necessario. Vediamo perché.

https://twitter.com/briansolis/status/1308862419150737408

I micromomenti e il Covid-19

Nel 2015 Google introdusse per la prima volta il concetto di micromomenti partendo da un’osservazione: l’utilizzo sempre crescente dei dispositivi mobili stava riscrivendo la definizione di “sessione di navigazione”. 

Con uno smartphone sempre in tasca consumare media digitali, interagire con chat e social network e interrogare i motori di ricerca diventano azioni sempre più frequenti e immediate: centinaia di momenti, appunto, disseminati nel corso della giornata, che impongono ai brand una profonda rivoluzione nella progettazione dei customer journey.

Nella teoria dei micromomenti è importante conoscere il contesto in cui i consumatori manifestano i propri intenti nei momenti chiave (I-want-to-know, I-want-to-go, I-want-to-do e I-want-to-buy) per riuscire a fornire le informazioni più pertinenti e a guidarli rapidamente verso la soluzione che cercano.

Se consideriamo che:

  • secondo i dati del report Digital 2021, nell’ultimo anno ogni utente ha trascorso in media quasi 7 ore al giorno su internet (più della metà su dispositivi mobili) e il traffico web da mobile ha raggiunto il 55,7% del totale (nel 2015 era il 38,6%);
  • la frammentazione territoriale di diffusione del Covid-19 sta producendo effetti e scenari diversi non solo tra i vari Paesi, ma anche all’interno dello stesso Paese (pensiamo all’Italia divisa in zone con esigenze e stati d’animo estremamente differenti tra gli abitanti di una regione rossa e di una gialla);

capiremo quanto sia irrimandabile per le aziende superare una logica e un’organizzazione multicanale e avviare la transizione verso una dimensione strategica customer-centrica e data-driven, capace di garantire un’elevata personalizzazione dei percorsi d’acquisto e di fornire risposte adeguate nei momenti che contano. 

I vantaggi della trasformazione omnicanale

In altri termini, è tempo di adottare un modello omnicanale, l’unico in grado di assicurare una gestione interconnessa dei punti di contatto offline e online per i brand e un’esperienza coerente e senza interruzioni tra il viaggio fisico e quello digitale per il cliente. 

Ma abbracciare l’omnicanalità significa soprattutto: 

  • imparare a considerare i dati come un vero asset aziendale;
  • investire sull’implementazione e sul corretto utilizzo di strumenti e tecnologie necessari all’elaborazione dei dati in possesso. 

Infatti, come spiega l’Osservatorio Customer Experience del Politecnico di Milano, l’Omnichannel CX Management si compone di tre fasi:

  1. la data collection: la raccolta dei dati, che vengono immagazzinati, gestiti e integrati in un CRM (Customer Relationship Management) o in un Data Hub in grado di dialogare con i touchpoint previsti nel customer journey;
  2. la data analysis: l’elaborazione dei dati con strumenti di analisi che restituiscono insight sui comportamenti e sugli interessi dei consumatori;
  3. la data execution: l’utilizzo effettivo dei dati attraverso la Marketing Automation, per scopi differenti a seconda della posizione che il consumatore occupa nel customer journey. 

Il ruolo dell’intelligenza artificiale

L’intelligenza artificiale riveste un ruolo centrale nell’ottimizzazione dei processi elencati:

  • permette di processare grandi quantità di dati in real-time;
  • contribuisce a restituire una customer experience gratificante grazie ai processi di autoapprendimento;
  • suggerisce interventi sulle customer journey map anticipando i cambiamenti con l’analisi predittiva.

La sezione Marketing Analytics dell’ultima edizione di The CMO Survey di Deloitte evidenzia un aumento significativo degli investimenti in IA e machine learning nei prossimi tre anni e conferma la tendenza che vede nell’adozione di applicazioni di intelligenza artificiale una tappa quasi obbligata in un percorso di trasformazione digitale che punti all’attuazione di una completa strategia di marketing omnicanale.

Tuttavia, è facile osservare come il fenomeno sia ancora limitato a grandi realtà che operano in settori specifici (Tech, Consumer Services e Retail su tutti). Inoltre, la survey che Deloitte ha dedicato al mercato italiano dopo il lockdown registra un gap non trascurabile per le tecnologie AI-driven, giustificato anche dalle diverse resistenze che le aziende italiane continuano ad incontrare nel passaggio da un approccio multicanale ad uno omnicanale.

Il valore della trasparenza

The CMO Survey offre lo spunto per porre l’attenzione su un ulteriore aspetto che meriterebbe un approfondimento a sé stante. Se l’obiettivo primario dell’omnichannel è la costruzione di una solida relazione con il consumatore, una data strategy che si rispetti deve riuscire a raggiungere e mantenere un alto livello di digital trust, sia reale che percepito.  

Nell’ultimo appuntamento di questo viaggio attraverso i trend della CX proveremo ad analizzare l’impatto del coronavirus sui singoli touchpoint: quali riusciranno a reggere l’urto? Quali rischiano di essere scalzati da soluzioni più innovative?


I brand di fronte alla sfida decisiva dell’agilità


Questo articolo è stato scritto da Marco Gaggiano, ex studente del Master in Comunicazione Digitale, Mobile e Social all’Università degli Studi di Parma, e fa parte di una serie di post dedicati al presente e al futuro della customer experience.

Nato in Puglia nel 1991, ho attraversato lo stivale per studiare ingegneria a Torino. Negli anni universitari ho iniziato a coltivare una forte passione per il digital marketing, che col tempo si è trasformata nel mio lavoro. Bologna è la mia nuova casa, tecnologia e fotografia i miei più grandi passatempi.
Marco Gaggiano

Qui puoi leggere la prima analisi sull’evoluzione dei modelli del customer journey, dal tradizionale AIDA al messy middle.

Qui puoi leggere la seconda analisi sull’importanza della brand Purpose nella CX post-Covid19.


https://twitter.com/nntaleb/status/1236749004978913282?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1236749004978913282%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es1_&ref_url=https%3A%2F%2Fgreatpixel.it%2Fi-brand-di-fronte-alla-sfida-decisiva-dellagilita%2F

Nel 2007 Nassim Nicholas Taleb, epistemologo ed esperto di matematica finanziaria, pubblicò un saggio dal titolo Il cigno nero per condividere i suoi studi su eventi di grande portata, impossibili da prevedere e in grado di cambiare il corso della storia. 

La teoria del cigno nero è stata citata a più riprese nei giorni in cui l’epidemia da Covid-19 iniziava a mostrare i suoi drammatici effetti su larga scala, tanto da costringere l’autore ad intervenire nel dibattito con una precisazione: “Il coronavirus non è un cigno nero. Manca una connotazione essenziale: l’imprevedibilità.”

Quel che è certo, però, è che l’emergenza sanitaria ha inflitto un durissimo colpo all’economia mondiale e diversi settori produttivi si sono ritrovati a dover rivivere lo spettro della crisi del 2008, quando la ripresa fu tutt’altro che rapida. 

Le misure straordinarie che i Paesi hanno dovuto adottare sin da subito per contenere e contrastare la diffusione della pandemia hanno generato profondi cambiamenti nella vita delle persone, e di conseguenza nelle loro abitudini di consumo, che potrebbero perdurare anche al termine delle restrizioni.

La crescita dell’ecommerce

Basti pensare ai numeri registrati dal commercio elettronico nel 2020. Osservando i dati globali e italiani, forniti da We Are Social e Hootsuite nel recente report Digital 2021, possiamo trarre tre importanti considerazioni:

  • sono aumentate le ricerche di prodotti e servizi online, le visite sugli ecommerce e le transazioni: 3 utenti su 4 hanno effettuato un acquisto online nell’ultimo mese;
  • alcune categorie hanno beneficiato maggiormente della situazione rispetto ad altre, in accordo con le problematiche fotografate da McKinsey nel grafico precedente. In termini di crescita percentuale, i settori Food e Travel occupano rispettivamente il primo e l’ultimo gradino della scala;
  • l’adozione dell’ecommerce ha interessato anche i consumatori più anziani, con un elevato grado di penetrazione nella fascia 55-64.

Per fronteggiare la recessione economica, fornire una customer experience all’altezza delle nuove abitudini dei clienti e accelerare la digital trasformation, l’unica strada percorribile per le aziende è quella che prevede un approccio agile o, come direbbe Taleb, antifragile.

In emergenza vince chi è Agile

L’antifragilità va al di là della resilienza e della robustezza. Ciò che è resiliente resiste agli shock e rimane identico a sé stesso; l’antifragile migliora.
Antifragile (2012), Nassim Nicholas Taleb

Dai gel disinfettanti di Ramazzotti e Bacardi ai camici per il personale sanitario di Armani, Gucci e Prada; dalle mascherine di Lamborghini ai ventilatori polmonari di Ferrari: sono solo gli esempi più celebri di una lunghissima serie di iniziative di solidarietà che, nei mesi del primo lockdown, hanno visto multinazionali, PMI, laboratori artigianali e realtà locali attuare una vera e propria riconversione produttiva.
Un’indagine su 100 aziende italiane condotta da Randstad Professionals ha evidenziato che in settori specifici (Tessile, Chimico, Plastico) la trasformazione temporanea ha dato origine a nuove opportunità di business nel lungo periodo e ha spinto le aziende interessate a ricercare figure professionali non presenti in organico fino a quel momento.

Nello stesso periodo, i notevoli ritardi nella gestione delle consegne dei servizi di spesa online offerti della GDO hanno favorito il fenomeno del proximity commerce: i piccoli negozi che hanno avviato un percorso di digitalizzazione dei canali di vendita sono riusciti a fornire per la prima volta modalità di acquisto come il “click&collect” (che in Italia ha riportato una crescita del 349% rispetto al 2019 secondo IRI e Netcomm) e a competere inaspettatamente con i grandi player. 

La capacità di ridisegnare in tempi brevi il proprio modello di business e di adattare le tecnologie alle esigenze imposte dal contesto di riferimento possono tradursi in un considerevole vantaggio competitivo. È questa la lezione di innovazione agile che ogni azienda, di ogni settore e di ogni dimensione, dovrebbe trarre dalle situazioni appena descritte.

Senza dimenticare, però, che l’agilità è il punto di arrivo di un viaggio complesso, che affonda le sue radici nel cuore dell’azienda: la sua organizzazione interna.

Il caso Airbnb

In questa crisi, mi sono sentito come il capitano di una nave colpita sul lato da un siluro.
Brian Chesky, CEO e co-fondatore i Airbnb

A settembre 2019 Airbnb, celebre piattaforma di affitti a breve termine di stanze e appartamenti privati con 7 milioni di annunci attivi, dichiarò in un comunicato l’intenzione di quotarsi in borsa nel corso dell’anno successivo. Pochi mesi prima aveva acquisito HotelTonight, servizio di prenotazione alberghiera per boutique hotel e hotel indipendenti. 

Ma con la rapida diffusione del Covid-19 nelle prime settimane del 2020, l’azienda si ritrovò a gestire immediatamente il crollo delle prenotazioni nei Paesi più colpiti e una forte ondata di proteste da parte degli host.

https://twitter.com/bchesky/status/1257915103615172608?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1257915103615172608%7Ctwgr%5E%7Ctwcon%5Es1_&ref_url=https%3A%2F%2Fgreatpixel.it%2Fi-brand-di-fronte-alla-sfida-decisiva-dellagilita%2F

L’orizzonte sempre più incerto e le ingenti perdite del primo trimestre costrinsero Brian Chesky, CEO di Airbnb, ad organizzare una call con i dipendenti a fine marzo per informarli sulla necessità di ricorrere a scelte drastiche nell’immediato futuro. 

Il 5 maggio, in una lettera aperta destinata a diventare uno straordinario caso di studio nel campo delle Risorse Umane, Chesky annunciò 1.900 licenziamenti (pari a circa il 25% dell’intero team).

In quel momento, l’obiettivo della quotazione a Wall Street entro l’anno sembrava naufragato. I tre fondatori concordarono una serie di interventi per affrontare le difficoltà nel breve periodo:

  • annullamento dei pagamenti per gli utenti che avevano effettuato prenotazioni poco prima della pandemia;
  • istituzione di un fondo di sostegno di 250 milioni di dollari destinato agli host;
  • taglio degli stipendi dei dirigenti;
  • riduzione degli investimenti in attività di marketing e in progetti secondari di diversificazione (trasporti, intrattenimento, hotel).

Contestualmente, sito web e app furono sottoposti ad una profonda riprogettazione e vennero introdotte sostanziali modifiche all’algoritmo affinché rispecchiasse il cambio di paradigma (e di visione strategica) manifestato dagli utenti: dagli affitti legati alle logiche e alle mete tipiche del turismo di massa al domestic travel, non lontano dai luoghi di residenza. Per lavorare in smart working in un ambiente diverso da quello casalingo e fuori dalle grandi città, per trascorrere un periodo di isolamento dalla famiglia in seguito ad un’eventuale esposizione al virus o semplicemente per vivere un’esperienza rilassante a pochi passi da casa e in sicurezza. 

Inoltre, con l’inserimento della sezione Esperienze Online all’interno del sito gli host iniziarono a beneficiare di una fonte di guadagno alternativa attraverso la proposta di attività in videoconferenza su Zoom a piccoli gruppi di partecipanti: “un modo diverso di viaggiare” e di accorciare le distanze. La campagna “Go Near”, lanciata a ridosso dell’estate per cavalcare il trend dei viaggi nazionali, ha permesso a Airbnb di risalire la china tra luglio e settembre, con un calo delle entrate inferiore solo del 18% rispetto al 2019.

Il 10 dicembre l’azienda è riuscita a portare a termine un’impresa quasi impossibile: l’ingresso nel mercato azionario ha superato di gran lunga le migliori aspettative con una capitalizzazione di 100 miliardi di dollari, la più grande quotazione statunitense del 2020. 

Leadership carismatica, comunicazione chiara con i dipendenti e rapidità nel processo decisionale sono i principali ingredienti di un successo tutt’altro che scontato. Il futuro di Airbnb è ancora ricco di insidie, ma la prova dell’agilità può considerarsi superata.

Nel prossimo articolo continueremo le riflessioni sulla competitività aziendale nell’Interim Normal parlando di omnicanalità, CX algoritmica e data-driven come leve per porre al centro il cliente fornendo un’esperienza integrata e consistente su tutti i touchpoint.

Scritto da: Marco Gaggiano


Progettare customer experience nell'Interim Normal: l'importanza del restare fedeli al proprio Purpose

Questo articolo è stato scritto da Marco Gaggiano, ex studente del Master in Comunicazione Digitale, Mobile e Social all’Università degli Studi di Parma, e fa parte di una serie di post dedicati al presente e al futuro della customer experience.

Nato in Puglia nel 1991, ho attraversato lo stivale per studiare ingegneria a Torino. Negli anni universitari ho iniziato a coltivare una forte passione per il digital marketing, che col tempo si è trasformata nel mio lavoro. Bologna è la mia nuova casa, tecnologia e fotografia i miei più grandi passatempi.
Marco Gaggiano

Qui puoi leggere la prima analisi.

“Stay true to company purpose and values”

È una delle prime indicazioni suggerite ai brand da McKinsey, all’interno di un report pubblicato a poche settimane dalla diffusione su scala globale del Coronavirus. Un vero e proprio monito che, nel corso del 2020, ha trovato conferma in decine di pubblicazioni, survey e report di settore.

In un periodo di paure e incertezze, le persone hanno bisogno di guide che siano in grado di rassicurarle, orientarle e garantire presenza e supporto nella vita quotidiana. E i brand sono chiamati a fornire risposte efficaci e autentiche a queste esigenze.

In realtà, già da tempo si registra un’attenzione crescente verso i temi dell’attivismo e della responsabilità sociale dei brand, sintomo di una nuova sensibilità che i consumatori stanno coltivando nei confronti del contesto sociale, politico ed economico in cui vivono. L’Edelman Trust Barometer, punto di riferimento molto autorevole nella misura del grado di fiducia delle persone, nell’edizione 2020 parlava di belief-driven buyers per riferirsi alla quota, sempre maggiore, di consumatori che chiedono alle aziende di prendere posizione su questioni di interesse comune.

Ma cosa intendiamo per brand purpose e brand activism, e perché sono importanti per confezionare una customer experience efficace?

Dal brand purpose al CEO activism

“Non appena un’azienda formula il suo ‘perché’, la sua cultura aziendale si fa più concreta e diventa immediatamente chiaro quali siano le scelte giuste da fare.”
Simon Sinek

  • Il brand purpose è lo scopo più alto per cui un marchio esiste, risponde al WHY della teoria del Golden Circle di Simon Sinek e prescinde da ogni dinamica di profitto.
  • Il brand activism è l’impegno attivo ed esplicito che il marchio sceglie di promuovere in cause di carattere sociale, traducendo il suo purpose in azioni concrete.

L’edizione 2021 dell’Edelman Trust Barometer riassume la situazione globale nell’anno della pandemia e ci offre lo spunto per introdurre un terzo concetto: la crisi della leadership nelle istituzioni ha rafforzato la tendenza da parte delle persone di affidare le proprie speranze all’operato dei CEO in quello che, all’interno del report, viene presentato come a new mandate for business.

Una sfida complessa, ma che non coglie impreparati i diretti interessati, come dimostra l’edizione speciale del 2020 CEO Outlook di KPMG.

Autenticità o ipocrisia?

Anche nel white paper COVID-19: i brand e le persone di Ogilvy Italia dello scorso aprile si fa riferimento ad una nuova missione per i brand leader: tracciare un percorso che riesca a proiettare i consumatori oltre l’emergenza, mettendo in campo iniziative che rispecchino i propri valori distintivi

Tuttavia, nella lista dei DON’Ts, Ogilvy pone l’accento su due aspetti fondamentali:

  • da un lato, quello che potremmo definire l’attivismo dell’ultima ora: lo sfruttamento di problemi di grande attualità per scopi tutt’altro che disinteressati. Non è un caso se a partire dal termine woke-washing, che racchiude e definisce queste pratiche scorrette, è stata coniata l’espressione covid-washing. Uno dei primi esempi (e, forse, uno dei più rappresentativi) è stato il giveaway organizzato su Instagram da Draper James, il marchio di abbigliamento femminile dell’attrice premio Oscar Reese Whiterspoon, per le insegnanti delle scuole pubbliche statunitensi. Il New York Times ha ripercorso la vicenda in un articolo;
  • dall’altro, l’annacquamento dei propri valori attraverso l’adesione temporanea a quelli di altri marchi, col rischio di sacrificare il proprio messaggio differenziante e causare un graduale appiattimento delle comunicazione pubblicitaria.
https://www.youtube.com/embed/vM3J9jDoaTA

Dalla customer experience all’employee experience 

In uno scenario in cui la preoccupazione per il lavoro e per la situazione finanziaria è seconda solo a quella per la salute e la sicurezza della propria famiglia, i brand hanno imparato che fornire un supporto autentico equivale a prendersi cura dei propri dipendenti ancor prima che dei clienti

Inoltre, per rispondere nell’immediato ai bisogni emergenti e preservare le relazioni di fiducia con i tutti gli stakeholder, molte aziende si sono dimostrate pronte ad investire risorse anche ingenti nella realizzazione di interventi per raggiungere diversi obiettivi:

  • ridurre le interazioni fisiche attraverso la migrazione delle operazioni essenziali su canali digitali;
  • potenziare i canali di customer service;
  • innovare il portafoglio prodotti;
  • attivare strumenti di sostegno economico e soluzioni flessibili di pagamento;
  • proporre servizi gratuiti in grado di alleviare i disagi causati dal prolungamento della vita domestica;
  • organizzare e promuovere progetti di charity.

Nuove brand interaction - reali e durature

Possiamo concludere che, nella crisi che stiamo attraversando, i “leader brand” smettono di soddisfare esclusivamente i desideri dei singoli clienti e iniziano a fungere da punti di riferimento per intere collettività, in un processo di umanizzazione e responsabilizzazione che li porta a diventare parte integrante delle comunità che abitano, sia a livello locale che globale.

Questo cambio di paradigma può costituire una notevole opportunità per creare connessioni reali e fortemente empatiche con le persone che popolano quelle comunità, che non si dimenticheranno di chi ha scelto di restare al loro fianco.Nella prossima puntata di questa serie di articoli dedicati al presente e al futuro della customer experience, parleremo di una parola molto importante: agilità.


Come stanno evolvendo i modelli di customer journey? Dalla tradizione di AIDA al messy middle

Questo articolo è stato scritto da Marco Gaggiano, ex studente del Master in Comunicazione Digitale, Mobile e Social all’Università degli Studi di Parma, e fa parte di una serie di post dedicati al presente e al futuro della customer experience.

Nato in Puglia nel 1991, ho attraversato lo stivale per studiare ingegneria a Torino. Negli anni universitari ho iniziato a coltivare una forte passione per il digital marketing, che col tempo si è trasformata nel mio lavoro. Bologna è la mia nuova casa, tecnologia e fotografia i miei più grandi passatempi.
Marco Gaggiano

Il Covid-19 ha modificato profondamente e rapidamente i modi (le fasi del customer journey) e i luoghi (i touchpoint) di interazione tra i brand e le persone. All’improvviso siamo stati costretti a stravolgere le nostre abitudini e le pratiche più consolidate di consumer behaviour, per accogliere le nuove routine del mondo low touch e contactless.

Da subito le aziende hanno dovuto interrogarsi su come riuscire a fornire risposte efficaci ai propri clienti e gestire la distruption generata dall’emergenza sanitaria. Già ad aprile McKinsey indicava quattro linee di scenari strategico-operativi per guidare i brand verso il New o Next Normal.

Negli appuntamenti che seguiranno in questa serie di articoli dedicati alla customer experience che ci aspetta, proveremo ad esaminare l’impatto del coronavirus sulla customer experience e ad approfondire i maggiori trend per il 2021. 

Spoiler alert :) parleremo di: 

  • responsabilità sociale dei brand
  • innovazione agile
  • omnicanalità
  • evoluzione dei touchpoint fisici e digitali

e di tanto altro ancora. Ma prima, è necessario uno piccolo sforzo di contestualizzazione: come si è evoluto il modo di pensare alle esperienze, in particolare ai customer journey?

Breve storia dei customer journey

Il customer journey è il processo che caratterizza l'interazione tra consumatore e azienda e che termina con l'acquisto.

In principio, fu il Modello AIDA. Dall’ottocento a oggi, un framework che ha fatto la fortuna di molti pubblicitari ed esperti di strategie di marketing, che continua a essere un buon punto di partenza per impostare una strategia in grado di mappare il viaggio del cliente nel suo percorso verso la conversione.

In uno scenario sempre più ricco di contenuti di touchpoint, le fasi di post-vendita e di advocacy hanno via via acquistato sempre più importanza.

In realtà, già nel 2005 P&G aveva proposto un approccio differente nella schematizzazione del customer journey, iniziando ad allargare lo sguardo verso l’esperienza immediatamente successiva all’acquisto e introducendo per la prima volta il concetto di momento di verità (moment of truth).

  •    nel FMOT (First Moment of Truth) il consumatore è davanti allo scaffale e sceglie il prodotto da portare a casa;
  •    nel SMOT (Second Moment of Truth) ha la possibilità di verificare, con l’utilizzo o con il consumo del prodotto, se le sue aspettative sono state soddisfatte o meno.

Nel 2011 Google, con lo ZMOT (Zero Moment of Truth) ha poi voluto descrivere uno stadio aggiuntivo nel quale il consumatore, spinto da uno stimolo iniziale, interroga la rete per avere indicazioni prima di entrare in contatto fisico col prodotto.

L’UMOT (Ultimate Moment of Truth) completa lo schema. Un momento identificato da Brian Solis, global futurist di SalesForce, prendendo in considerazione il feedback positivo o negativo espresso dal consumatore che diventa allo stesso tempo the next person’s ZMOT.

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Cosa succede nel 
messy middle

Il modo in cui le persone prendono decisioni è caotico e lo diventerà ancora di più.

I concetti appena illustrati sono alla base della progettazione di ogni customer journey map. Ma negli ultimi tempi, i professionisti del marketing sono chiamati ad affrontare un nuovo livello di complessità: comprendere il messy middle. A luglio 2020, infatti, Google ha presentato un report dal titolo “Decoding Decisions. Making Sense of the Messy Middle”, con lo scopo di indagare i meccanismi che guidano il comportamento dei consumatori dallo stimolo (TRIGGER) alla scelta. Ecco il risultato.

Nel centro del percorso, dominato dal caos (da qui “messy middle”), le persone svolgono una serie di attività riconducibili a due schemi mentali:

  •    uno espansivo, l’ESPLORAZIONE;
  •    uno riduttivo, la VALUTAZIONE.

Tali operazioni si ripetono ciclicamente, fino a quando il consumatore non giunge ad una decisione che si concretizza in un’azione d’acquisto. Le scienze comportamentali rivestono un ruolo chiave nei processi di esplorazione e valutazione: abbiamo infatti imparato ad adottare scorciatoie cognitive per riuscire ad orientarci tra un numero sempre crescente di informazioni e di scelte disponibili.

In un esperimento illustrato all’interno del report, gli autori hanno dimostrato come spesso gli acquirenti siano disposti a dare fiducia a brand sconosciuti (o, addirittura, fittizi), a scapito di realtà consolidate in un determinato settore, grazie all’attivazione di uno o più bias cognitivi tra i sei presi in analisi.

Euristica di categoria: una descrizione chiara e concisa di un prodotto facilita la decisione di acquisto. 

Potere dell’immediatezza: la velocità con cui il prodotto può essere usufruito ne incentiva l’acquisto.

Prova sociale: la Social proof è quel fenomeno per cui le persone tendono a ritenere di maggior valore i comportamenti e le scelte di un elevato numero di persone. Un esempio? Il noto “meccanismo di recensioni”, che si basa proprio su questo bias: nessuno può scegliere un prodotto o prenotare un ristorante senza prima aver letto le recensioni!

Bias di scarsità: offerte limitate e numero di articoli rimanenti (se pochi) possono indurre le persone ad una reazione immediata. Inoltre, la scarcity può anche aumentare il valore percepito del prodotto.

Bias di autorità: il bias di autorità si ricollega bene al bias della prova sociale. Infatti, il parere di una persona per noi influente modifica positivamente la propensione all’acquisto. Un esempio sono gli Ambassador e gli Influencer, i quali giocano un ruolo cruciale nel determinare la percezione positiva del prodotto che sponsorizzano.

Potere della gratuità: è sempre meglio dare prima di chiedere. Offrire un omaggio in cambio dell’acquisto di un prodotto incentiva all’acquisto. Avete presente “iscriviti ora e ricevi subito gratis il pdf”? Questa pratica molto diffusa è anche molto efficace perché le persone si sentiranno maggiormente predisposte a ricambiare quello che di fatto assume l’aspetto di “un favore”. 

Come farsi notare nel caos?

Questi ultimi mesi di pandemia hanno provocato un aumento notevole della presenza di contenuti informativi da un lato e del numero di ricerche e acquisti online dall’altro. Per i brand diventa essenziale non solo garantire la presenza in tutte le fasi del percorso d’acquisto senza lasciare zone d’ombra, ma soprattutto fornire un aiuto al consumatore confuso e guidarlo verso la decisione.

Come?

  1.  Avvicinando il momento del trigger a quello dell’acquisto per battere sul tempo i competitor.
  2.  Applicando i principi delle scienze comportamentali per dare forza alla propria proposta, ma in modo intelligente e responsabile. Perché, come vedremo, mai come oggi fiducia ed empatia rivestono un ruolo chiave nelle relazioni tra aziende e consumatori.

Nei prossimi articoli, continueremo questo viaggio all’interno della customer experience e dei customer journey.